Manzone Architetto

Autore/Author: Ruggero Lenci



 

Ruggero Lenci

L'opera architettonica di Nino Manzone, molteplice e al tempo stesso unitaria, può essere letta più agevolmente se suddivisa nelle otto anime che la compongono e che l'hanno ispirata, non sempre attraverso divisioni temporali cronologicamente distinguibili, ma certamente corrispondenti a otto imperativi che Nino ha seguito in modo profondo e intenso durante tutta la sua vita.
La prima anima, che definiremo di influenza scandinava, si concretizza con il progetto per la Camera di Commercio di Ravenna, città che rimane senza dubbio sua più di ogni altra, occidentale e orientale al tempo stesso, metafora del suo continuo peregrinare; la seconda, che si può definire romanica o di rapporto con le preesistenze storiche, è legata soprattutto agli inserimenti, in quella città, dell'Hotel Bisanzio, della casa Roncuzzi e dell'Archivio di Stato; la terza, che chiameremo tecnologica, trova compimento nel progetto per l'Istituto Tecnico Industriale ancora a Ravenna; la quarta, definibile come periodo dei crescents e dei grandi progetti non realizzati si sviluppa, a mio giudizio, a seguito degli stimoli derivanti dal lavoro con Ludovico Quaroni e Marcello d'Olivo e si manifesta nei progetti per la Pineta/Lido di Classe a Ravenna, per il centro residenziale Lido del Sole a Rodi Garganico, per il complesso il Girasole al Lido degli Estensi, con il concorso per il quartiere fieristico a Bologna, con quello per un prototipo di Motel per l'Italia, e infine con il concorso per un parco urbano intitolato alla resistenza a Modena; la quinta, che sviluppa un'idea basata sul diaframma triangolare, trova espressione con i progetti per il residence a Milano Marittima, col l'Hotel Mehari a Tripoli e con il Palazzo per uffici a via Karim Chan e Zand a Teheran; la sesta, definibile come mediorientale, si manifesta nei progetti svolti negli anni della permanenza in Iran e, poi, in Iraq; la settima, che si può chiamare dei concorsi internazionali, è quella del ritorno a Roma, sua città natale, ed è caratterizzata dalla voglia di fare architettura e di misurarsi con i grandi temi di ricomposizione urbana; l'ottava, ed ultima anima di Manzone, è quella dedicata al disegno dei mobili e ai progetti di arredamento.
Benché ritenute fondamentali per la comprensione dell'architetto, tuttavia si ritiene utile proporre questa suddivisione dell'opera di Manzone in otto parti esclusivamente nel saggio introduttivo e non anche nella successiva illustrazione dei progetti, perché sono convinto che essa risulterà pertinente e appropriata solo se riuscirà a costituire uno stimolo e un invito a una lettura trasversale dei suoi lavori e non una scelta forzata di un noioso quanto inutile incasellamento degli stessi. Tale suddivisione vuole costituire un momento interpretativo che contribuisce a far cogliere e a rendere più evidenti quelle sfumature, quelle articolazioni linguistiche e quei significati che altrimenti richiederebbero molto tempo e attenzione critica per ricostruire.
Ho conosciuto Manzone nel 1983 a Roma in un momento di passaggio tra il suo periodo mediorientale e quello romano dei grandi concorsi internazionali. Era l'anno in cui avevo fatto ritorno in Italia dagli Stati Uniti con Nilda, dopo un lungo periodo di lavoro e di studio vissuto ad Atlanta e a Houston. In quell'anno Nino era da poco tornato a Roma da un periodo di tre anni vissuto in Iraq, dove aveva terminato la supervisione dei lavori del grandioso monumento al Milite Ignoto progettato dal suo ex collega di studio Marcello D'Olivo. Mi fece subito l'impressione di una persona che, pur con un passato glorioso alle spalle, nel presente soffriva quella condizione tipica di chi ha badato poco a costruirsi una vecchiaia serena preferendo, ai numerosi compromessi e alle noie burocratiche spesso connesse a questo obiettivo, una vita fatta di decisioni improvvise e di rapidi spostamenti per il mondo, insieme alla sua numerosa famiglia.
In quegli anni uscirono una serie di concorsi internazionali ai quali decidemmo di iscriverci sia per l'interesse che avevamo di misurarci con nuovi temi architettonici e urbani, che per riguadagnare una dimensione progettuale romana, da tempo dimenticata. Io e Nilda, venendo in Italia, eravamo passati dalla professione americana, dove ogni progetto veniva regolarmente realizzato, a quella italiana, fatta soprattutto di concorsi e coinvolgenti dibattiti, ai quali solo raramente segue la realizzazione dell'idea. Per elaborare quei grandi concorsi prevalentemente elaborati nella seconda metà degli anni '80, impiegavamo parecchi mesi durante i quali eravamo impegnati in quella sorta di incosciente passione che caratterizza il lavoro di tutti gli architetti che si cimentano in queste prove. Dato che c'era poco lavoro ed essendo accomunati dalla convinzione che un architetto che non progetta in cuor suo non può chiamarsi tale, quello dei concorsi era l'unico modo di operare.
Nino aveva quello spirito di internazionalità a cui io sono naturalmente attratto, in più velato da una patina di orientalismo che gli conferiva un rinnovato interesse per un punto di vista nuovo, da me meno conosciuto rispetto ai modelli standardizzati americani ai quali ero abituato, con il quale era di indubbio interesse confrontarsi costantemente. Con lui non mi confrontavo solo su temi legati al funzionalismo liberale e democratico dell'american dream per il quale nulla è impossibile, ma anche sul conservativismo delle forti radici religiose e autoctone dei popoli arabi e sul significato che ha una cultura della resistenza al sopravanzare di valori internazionali. In realtà ci interrogavamo sugli stessi temi, e nello stesso periodo, affrontati da Kenneth Frampton nei suoi interessanti articoli sul Regionalismo Critico, a conferma del fatto che quando una problematica è matura questa viene percepita nelle sue linee generali in diversi angoli della terra.
Manzone, portandoci il respiro dei suoi viaggi in terre d'oriente, non condannava e non lodava queste culture, ma si limitava a trasmetterne un significato nel tentativo di capire le due forse più significative posizioni presenti nel mondo contemporaneo: i pregi della resistenza dei valori presenti principalmente nel mondo islamico ma con essi anche i limiti culturali, di crescita scientifica e di tolleranza religiosa di questo mondo, e i costi dell'esasperato consumismo e della perdita di valori occidentale, che si attuano nonostante, e forse a causa, dell'assenza di precisi limiti culturali o scientifici. Con questo suo modo di essere egli riempiva l'aria di una sua particolarmente bilanciata saggezza che in alcuni momenti risplendeva e si manifestava con intuizioni geniali sia nell'analisi della condizione contemporanea che nei progetti di architettura, carica com'era di attrazioni derivanti dall'esperienza di un suo conquistato punto di osservazione anche orientale. Una saggezza che ci investiva attraverso i suoi occhi vivissimi, comunicanti, magnetici, in cui risplendevano le sue esperienze, le sue convinzioni ed ostinazioni, ma che sarebbero, nei primi anni '90, diventati stanchi, sofferenti, non potendo celare gli acciacchi che la vita insieme all'esperienza gli avava procurato, i quali si trasformavano in minacciosi problemi di salute.
Anche a questo suo fascino è dovuta la nostra congiunta partecipazione a una serie di concorsi, che fanno parte del suo penultimo periodo, alcuni dei quali localizzati in terre di levante come nel caso della Biblioteca Alessandrina ad Alessandria d'Egitto, del Centro Ulugh Beg aSamarcanda, nonché del Centro Nazionale per le Arti Indira Gandhi a Nuova Delhi (a cui però io non ho preso parte). Gli esiti di questi concorsi sono stati abbastanza buoni per la Biblioteca Alessandrina e discreti per il Centro Ulugh Beg di Samarcanda, ma non hanno eguagliato quelli di quando Manzone iniziava la sua brillante carriera di architetto con la vittoria nel 1953 del concorso nazionale per la Camera di Commercio di Ravenna, per merito di un progetto presentato al ritorno dalla sua permanenza di studio e di lavoro di due anni in Svezia, nel quale si rispecchia la sua prima anima architettonica.
Riesaminando le sue esperienze si può osservare che fino a quando egli è stato in grado di dominare la dimensione del proprio operato, Nino è anche riuscito a portare a realizzazione i progetti iniziati, ma quando ha tentato un salto di scala che si è concretizzato sia con i grandi progetti elaborati a seguito dell'esperienza progettuale della sistemazione della Pineta e del Lido di Classe con Ludovico Quaroni che con il trasferimento in Iran che, in seguito, con i concorsi elaborati a Roma, le possibilità concrete che gli si sono presentate di dare realizzazione alle proprie idee hanno iniziato a sfuggirgli di mano interrompendo, in modo per lui molto negativo, il fluire delle energie fino a quando, ormai tardi, deciderà di dedicarsi alla piccola scala del progetto, a quella del mobile, dimensione più rassicurante nella quale poteva nuovamente ritrovare il piacere della realizzazione dell'idea.
Il carattere straniante del suo primo progetto, la Camera di Commercio, dovuto alla schetta messa in atto di regole sintattiche chiare, derivanti da una reinterpretazione dell'ampliamento del Palazzo di Giustizia di Göteborg (1934-7) di Erik Gunnar Asplund, nonché all'intensa e nuova colorazione rossa, l'avranno sicuramente resa architettura/oggetto nel paesaggio urbano di Ravenna così fortemente connotato dalla storia. Non appena costruito, l'edificio doveva apparire come una sorta di Pompidou Center di quella città degli anni '50. Quaroni ne ha così scritto nella rivista l'Architettura di Bruno Zevi: "un edificio degnamente moderno, il primo in linea con la civiltà delle grandi industrie.... la sala conferenze è forse la migliore realizzata in Italia, nonostante le evidenti compiacenze 'scandinave', e gli uffici sono un modello, per distribuzione, per impianti e per arredamento, che dovrebbe essere tenuto presente da tutti. Ma servirà questo edificio ad indicara una strada dignitosa all'edilizia della futura città industriale....?"
Avendo nel prospetto messo a nudo la struttura, ovvero le nervature "gotiche" che la compongono, e ciò in un'opera costruita nella capitale del romanico, Manzone compie un atto di coraggio introducendo, nel 1953 in Italia, elementi linguistici di forte modernità che risulteranno importanti per alimentare il dibattito presente e futuro sugli interventi nei centri storici. La maglia strutturale alla quota del piano attico si ingrossa nei punti di intersezione tra travi e pilastri creando un effetto del tipo trave “Vierendeel” che, in posizione asimmetrica, si svuota. In corrispondenza di questa smaterializzazione della superficie, che perdura per due moduli e mezzo, anche la copertura si interrompe ma non del tutto, rimarcando in alto la scansione strutturale in modo da restituire significato sintattico all’opera.
Con il progetto dell'Hotel Bisanzio si può parlare dell'inizio del secondo periodo di Manzone teso a sperimentare operazioni di inserimento nella città storica di Ravenna attraverso il progetto di un edificio che sorge in un lotto d'angolo situato a poca distanza dal complesso monumentale di S. Vitale e dal Mausoleo di Galla Placidia. L'esperimento tentato è ricercare la continuità con l'architettura romanica principalmente attraverso l'uso del mattone e dell'accentuazione dello spessore murario. Quest'ultimo riposa su un esile, quanto moderna, struttura in cemento armato che si rende schiettamente visibile alla base della volumetria a mattoni posta superiormente che, per l'inserimento delle bucature, viene ulteriormente scavata in fasce verticali  secondo una regola organica e, al tempo stesso, neoplastica che evita l'uso della finestra come buco nel muro, la medesima che verrà in seguito utilizzata da I. M. Pei nel progetto per edifici residenziali bassi a Society Hill, Philadelphia. Nell'esporre tanta fragilità le colonne in cemento armato e la trave esprimono modernità e schiettezza per l'uso e per l'abbinamento di volumetrie di diverso peso, secondo un principio noncurante dell'idea di "peso-forma".
In altri interventi di inserimento o di architettura di interni a Ravenna saranno presenti gli stessi principi ispiratori. Dalla Casa Roncuzzi, nella quale il rapporto tra il mattone e la struttura in vista viene rimeditato a favore di una combinazione dei due materiali e di una fusione delle linee nella quinta prospettica; nell'Archivio di Stato nel quale l'obiettivo è quello di un inserimento urbano moderato, per far appartenere l'edificio al luogo; nell'allestimento della Mostra dei mosaici dove il lungo muro segmentato, costruito rigorosamente a mattoni, restituisce alla mostra, situata in un semplice salone del Museo Nazionale, la ricercata continuità storica con il complesso di San Vitale e con la città.
Nell'Istituto Tecnico Industriale di Ravenna, progettato insieme a Gino Gamberini e Danilo Naglia, si rispecchia l'imperativo tecnologico e, con esso, fa apparizione la terza anima. L'edificio si configura come un meccano o struttura movibile, in cui i contenuti tecnici degli insegnamenti vengono rivelati per mezzo della struttura schiettamente esposta: un'architettura pensata per esprimere il proprio contenuto. Totalmente anti formalistico il progetto dell'Istituto ha come obiettivo, nelle parole di Manzone, quello di "formulare un programma funzionale e distributivo e di configurarlo spazialmente secondo una stereometria elementare: un parallelepipedo nel quale tutto funzioni...... . Perché inventare ogni volta l'ombrello? Perché non utilizzare i prodotti verificati? Ha senso il segno personalizzato quando nessuno ha più tempo di guardare? Ormai contano solo i fatti macroscopici, le grandi masse, i grandi motivi, le grandi stesure cromatiche. Non ha più senso un'architettura da contemplare. Solo pochi intellettuali nostalgici di un mondo ormai superato si interessano al particolare raffinato, all'oggetto individualizzato. Siamo sottoposti a troppe sollecitazioni visive. Ogni forma è sottoposta a un consumo così rapido da risultare, alla fine, esteticamente neutra. Diciamolo francamente: giocare con ideuzze formali è ormai delittuoso."
Questo brano esprime, forse meglio di altri suoi scritti, il carattere anticonformista di Manzone, che più nemici, o indifferenza, che amici gli ha procurato. Con esso ogni tentazione, anche futura, a cedimenti formalistici ispirati da atteggiamenti dubbia modernità è per sempre abbandonata, prova ne sia che tale minaccia non affiorerà neanche quando il postmodernismo si agiterà con i suoi richiami basati su melodie e tonalità stucchevoli.
Nella proposta per la Pineta/Lido di Classe a Ravenna del 1963, elaborata con Ludovico Quaroni, Marcello D'Olivo e altri, il fascino delle forme curve del progetto quaroniano presentato quattro anni prima al concorso per le Barene di San Giuliano, cattura la quarta anima di Manzone. La ricerca del gruppo di progettazione è quella di dare risposte aperte e unitarie a una forte domanda di turismo di massa, attraverso proposte che superino l'attuale situazione di polverizzazione che il territorio subisce passivamente a seguito della frantumazione del litorale in lotti e residenze unifamiliari. Queste vengono sostituite da supercondomini a forma di crescent che inglobano tutte le funzioni richeste per mezzo dei quali, sulla scorta delle esperienze realizzate da Luigi Carlo Daneri a Genova, l'architettura diventa macrosegno emergente nel paesaggio naturale. Nello sviluppo residenziale Lido del Sole a Rodi Garganico la ricerca di un'architettura curvilinea continua anche nel passaggio dalla scala del grande progetto urbanistico a quella del gruppo di edifici. Con una ulteriore riduzione di scala, nel progetto Il Girasole, per un sito ancora marittimo al Lido degli Estensi, permane la medesima logica della creazione di un complesso a pianta circolare che guarda verso il mare ma qui la dimensione e il dettaglio dell'intervento sono quelli dell'architettura. Anche il progetto di concorso per il nuovo Quartiere fieristico a Bologna risente, nella sua parte centrale, della volontà di articolare la composizione dei volumi secondo uno schema dettato planimetricamente dal cerchio. Nel progetto di concorso per un Motel da erigersi in qualsiasi località del nord e del sud d'Italia è prevalente, oltre all'influenza curvilinea, anche e soprattutto quella del metabolismo di Kisho Kurokawa e degli altri architetti nipponici che, specialmente con i progetti per le Prefabricated Apartment Houses e per la Nakagin Capsule Tower, negli anni '60, affrontano il tema della capsulizzazione degli spazi dell'uomo. Questi concetti sono qui combinati insieme a quelli delle calotte di Buckminster Fuller miranti a isolare una porzione di spazio sferico all'interno della quale ricostruire un microclima controllato. La fase curvilinea di Manzone si conclude con il progetto di concorso per il Parco urbano di Modena intitolato alla resistenza, tutto modellato su segni circolari ma nel quale appare un elemento lineare di grande forza compositiva, un collettore che distribuisce alle diverse funzioni a forma di un gigantesco flauto, con il compito di tenere unite insieme in senso compositivo le varie parti, tra cui spicca anche un triangolo equilatero.
La quinta anima del lavoro di Manzone, definibile del diaframma triangolare, ha inizio con il progetto per il Palazzo residence a Milano Marittima. La matrice geometrica di questo progetto è così forte da caratterizzare un vero e proprio filone investigativo su questa forma, in sintonia con gli studi sul corpo scala triangolare che distribuisce gli alloggi a tre livelli diversi, portati avanti dall'amico Michele Valori. In questo primo progetto si tenta la fusione del mondo brutalista con quello organico. Due sono i riferimenti immediati: il grattacielo ad Algeri del Quartier de la Martine di Le Corbusier e la torre St. Mark a New York di Frank Lloyd Wright. Si tratta di un edificio residenziale non realizzato formato da una piastra di servizi a pianta triangolare sovrastata da tre parallelepipedi che, similmente al diaframma di un obiettivo fotografico, da un'iniziale posizione virtuale di stella a tre punte vengono arretrati totalmente, fino a massimizzare il volume interno dell'organismo, dando così luogo a un triangolo equilatero. I tre spazi lasciati aperti tra i parallelepipedi sono occupati da terrazze a tripla altezza sulle quali si affacciano i ballatoi di accesso agli alloggi terminanti, per ogni ala, su una scala di sicurezza. Oltre al motivo planimetrico, questo progetto stupisce per la forza figurativa dell'impianto prospettico.
Anche nel progetto dell'Hotel Mehari a Tripoli, il corpo risultante è formato da tre parallelepipedi che, come a Milano Marittima, scorrono da un'iniziale posizione virtuale di stella a tre punte priva di volume interno, sino a creare ed espandere il volume interno dell'organismo. Ma la differenza planimetrica tra i due progetti è che ora questo arretramento viene arrestato prima, in una posizione intermedia che restituisce al progetto l'idea di stellare. Anche le tre scale di sicurezza, che a Milano Marittima occupavano una posizione più esterna ed erano accessibili dai ballatoi, e che nel progetto che segue ne occuperanno una più interna, vengono collocate in posizione intermedia, come se facessero parte di un meccanismo analogo ai tre progetti che risente ogni volta dello scorrimento avvenuto. Queste scale sono qui accessibili dalle terrazze ogni tre piani. La zona centrale dell'edificio, the core, è occupata da sei ascensori e da una monumentale scala a tre rampe. Anche la piastra al piano terra è progettata sulla maglia triangolare mentre i prospetti sono caratterizzati da frequenti brise-soleil verticali scorrevoli che conferiscono alla composizione un aspetto dissonante, con vibrazioni cromatiche sempre nuove e dinamiche.
Nel Palazzo per uffici a via Karim Chan e Zand a Teheran la sperimentazione planimetrica sulla geometria del triangolo viene ulteriormente portata avanti e analizzata in una diversa fase del virtuale movimento diaframmatico dei tre volumi che ora divengono parallelogrammi, hanno altezze diverse e fanno uso di un linguaggio non più brutalista ma orientato all'International Style. Qui lo scorrimento rotatorio del diaframma interrompe anticipatamente la sua corsa rimanendo più chiuso rispetto a prima, in una posizione in cui lo spazio interno è totalmente occupato dal fusto centrale dell'edificio contenente i sistemi distributivi verticali. In questo modo i tre parallelogrammi diventano quasi totalmente biesposizionali. Le terrazze a tripla altezza sono confermate e le scale di sicurezza, accessibili anche qui ogni tre livelli dalle terrazze, occupano una posizione più interna.
Un nuovo periodo di Manzone, ovvero quello della sesta anima precedentemente definita mediorientale, include quei progetti sviluppati in Iran negli anni settanta e inoltre la supervisione dei lavori, ricca di interventi architettonici alla scala del particolare costruttivo, del grande cantiere del Monumento al Milite Ignoto di Baghdad. Uno dei progetti più significativi di questa fase è costituito dalla Sede dell'Iran Novin a Teheran, elaborato per un concorso vinto ma non realizzato. Concepito per ospitare gli uffici del Quartier Generale di un importante gruppo, il progetto non cela il riferimento all'opera di Luigi Moretti, ed in particolare agli edifici gemelli dell'EUR che ospitano attualmente gli uffici del Credito Italiano e della Società Generale Immobiliare, dei quali viene ripreso, sia pur completamente reinterpretato, il trattamento delle facciate fatto di brise-soleil lamellari qui orientati sui due opposti angoli di 45 gradi. Questa rotazione disegna sul partito architettonico un effetto di vibrazioni ricco di movimento che reinterpreta i motivi decorativi dell'architettura islamica. Un altro concorso vinto ma non realizzato è quello per la progettazione di un edificio prototipo, un Parlamento Regionale per il Sud-Est dell'Iran da ripetersi nelle diverse regioni del paese. Il progetto prende le mosse dallo studio del quadrato tagliato sulla diagonale per mezzo di una strada interna pedonale elevata rispetto al piano stradale che smista agli uffici pubblici e all'aula consiliare. I due volumi, di diverso peso, mostrano all'esterno il tipo di funzione svolta negli spazi interni, sia attraverso il trattamento delle superfici verticali che di quelle orizzontali di copertura, ovvero del "quinto prospetto", tanto caro ad Adalberto Libera, elemento da cui anche Manzone rimane affascinato. Il progetto rispecchia un momento culturale dell'Iran nel quale era possibile proporre una sperimentazione architettonica tesa a valorizzare l’internazionalizzazione del paese. L'edificio dei Grandi Magazzini e Alloggi sarebbe dovuto sorgere in una zona di Teheran densamente abitata che consentiva lo sviluppo in altezza della cubatura, da cui è derivata una piastra contenente i grandi magazzini e una torre di venti piani nella quale trovano collocazione le tipologie abitative simplex e duplex. I due volumi, fisicamente separati tra loro, vengono uniti dal corpo scala/ascensore che fuoriesce dalla superficie della piastra, salda le due masse e termina, carico di simbolismi, come un lungo dito svettante nel cielo.
La settima anima, ovvero quella dei concorsi internazionali, si apre con le consultazioni per la sistemazione della parte conclusiva della Tête Défense e per un nuovo teatro dell'Opera alla Bastille a Parigi (Sergio Lenci capogruppo). A questi segue quello per il Centro Nazionale per le Arti, Indira Gandhi, a Nuova Delhi  del 1986, la cui area collocata sul grande parterre progettato da Sir Edwin Lutyens nel 1912, la "Central Vista", ha come fondale il Parlamento. L'impostazione del progetto si basa su un edificio ad "elle", che si caratterizza per la sua sezione estrusa, al quale è demandato il compito di ospitare funzioni quali: alloggi, uffici, centro ricerca e catalogazioni, sale per teatro e per la musica, nonché un insieme di corpi dedicati ai musei. I volumi sono distribuiti da un percorso in quota denominato "lifeline" che dal primo livello, raggiunge l'area di parcheggio sino alla quota stradale della "Central Vista". I diversi edifici contenenti le funzioni espositive e di rappresentazione musicale si differenziano l'uno dall'altro non solo funzionalmente ma anche linguisticamente, mettendo in campo per la prima volta, in un unico progetto di Manzone, un vasto repertorio formale.
Con il progetto di concorso per la Nuova Biblioteca Alessandrina ad Alessandria d'Egitto del 1989, si è operata la scelta linguistica di combinare due codici dell'architettura contemporanea: il razionalismo e l'espressionismo. Questa articolazione linguistica mostra due momenti dell'edificio: la pelle, la cui forma trova motivazione dalla necessità di schermare i raggi del sole attraverso un muro continuo, curvo sia planimetricamente che altimetricamente, riccamente scolpito sia con grosse aperture che con piccole finestre; il corpo, formato da una struttura portante in cemento armato che si basa su grandi colonne quadrate. Questo obiettivo linguistico va inquadrato nell'importanza che l'istituzione è destinata a ereditare dalla sua antenata, ovvero dalla più famosa biblioteca del mondo antico (284-247 a.C.) e una delle sette meraviglie del mondo. L'andamento a "balestra" dei volumi è stato suggerito sia dalla conformazione che dalla posizione dell'area frontistante il Mar Mediterraneo. L'arco, contenente le sale di lettura, occupa una posizione di affaccio sul mare in direzione nord mentre l'asta, contenente a terra il portico monumentale di accesso alla biblioteca e in alto il deposito dei libri, occupa una posizione interna e di rapporto con le altre strutture culturali presenti nella zona tra cui il campus universitario. La localizzazione del deposito dei libri in un volume sovrastante gli altri spazi, così da ombreggiarli e creando dei tagli di luce per mezzo dei quali dosare l'illuminazione naturale degli antri interni, è stata suggerita dalla forte esposizione ai raggi del sole presente ad Alessandria. Il rapporto di percorrenza tra il portico e l'ingresso alle sale di lettura, la "Callimachus Hall", è ascensionale sia per ragioni simboliche che funzionali. Quest'ultima sala, che rappresenta il cuore del progetto, ha una grande apertura in direzione nord, verso il mare, al fine di orientare il fruitore all'interno della biblioteca.
Il programma del concorso internazionale per il Centro Ulugh-Beg a Samarcanda, Uzbekistan, del 1991, richiedeva l'ideazione di un centro, oggi inesistente, per la città di Samarcanda. L'area di concorso necessitava di una soluzione progettuale che potesse risolvere sia i problemi dell'integrazione dell'antico con il nuovo che quelli dell'esaltazione della magnificenza del monumentale complesso religioso del Registan. La proposta di progetto, facendo uso di un lungo edificio/muro con una doppia curvatura che ricorda la superficie di una diga, intende arginare, non solo simbolicamente, la nuova espansione urbana che ancora oggi provoca la lenta corrosione della città antica. Il segno urbano si compone di un unico edificio il quale dialoga con il complesso monumentale tramite un "tappeto", o percorso/piazza pedonale, dove sono contenuti gli spazi per la sosta e per il relax. All'interno dell'edificio hanno luogo la scuola di belle arti, la libreria di manoscritti antichi, il centro informazioni dell'Accademia dell'Uzbekistan, il museo, il planetario, l'osservatorio, gli spazi espositivi, la Moschea, le sale multifunzionali, l'albergo internazionale, la banca, le sale di audizione, le sale video, un auditorium, un ristorante. Il teatro dell'Opera esistente è stato incorporato nell'edificio in modo da creare una diretta relazione tra lo stesso e le molteplici attività del nuovo centro. Lo spazio interno del nuovo volume è caratterizzato da un ampio atrio coperto che lo percorre per tutta la lunghezza su altezze variabili da 0 a 7 piani che conferiscono alla volumetria la forma di un'immensa rampa curva. Il materiale per gli esterni è il granito e il "tappeto" buca l’imponente massa rocciosa con la potenza derivatagli dal Registan dal quale nasce. Quest'ultimo è l'unico elemento del progetto in grado di aprire una breccia nel colossale muro.
L'ottava parte del lavoro di Nino Manzone coincide con gli ultimi anni della sua vita, dedicati a progetti di arredamento e al disegno di mobili. Essa ha inizio con il progetto di ristrutturazione del "Fungo dell'EUR" del 1989-91, situato sulla collinetta di piazza Pakistan nei pressi del laghetto artificiale e realizzato nel 1957-59 da Roberto Colosimo con la funzione di alimentare, con una vasca d'acqua di 2.500 metri cubi, la rete antincendio e di innaffiamento del quartiere. Al suo interno, oltre alla grande vasca, è contenuto un anello perimetrale nel quale fu ricavato, a cura dell’arch. Lorenzo Monardo, un belvedere vetrato a sezione triangolare che per molti anni ha ospitato un ristorante. Alla fine degli anni '80, quando una nuova gestione ha deciso di riaprire il ristorante "il Fungo", l'obiettivo di progetto è stato quello di aumentare l'altezza disponibile nell'anello perimetrale e di riparare la lunga finestra anulare dalla pioggia modificandone la sezione tipo. In questo spazio la percezione è tutta protesa verso l'esterno, a causa della forte spinta centrifuga naturalmente presente nella morfologia anulare ed esaltata dal disegno del pavimento in legno, realizzato con due essenze tessute su una matrice geometrica tangente alla corona circolare. Gli elementi fissi di arredo e di rivestimento seguono l'andamento della parete del serbatoio che ha la forma di un enorme capitello egizio.
Durante il progetto del Fungo Nino avrà un ictus cerebrale, non sarà il primo, che gli paralizzerà gran parte dell'uso della parola e del braccio destro. Rimessosi in piedi riprenderà l'arrività progettuale dedicandosi esclusivamente al disegno di mobili, attività che lo terrà occupato fino alla morte. Negli anni dal 1990 al 1993 lo si poteva spesso trovare al tavolo da diseno o su un divano intento a schizzare, con grande difficoltà ma anche con tanta passione, i suoi mobili tra cui emergono per ingegno compositivo quelli della serie girevole, per leggerezza e fantasia espressiva quelli della serie degli scacchi, con il Re, la Regina, la Torre, l'Alfiere, il Cavallo e la Pedina, nonché per il peso architettonico dell'idea quelli della serie dei grattacieli.
Una volta fatto il disegno, che poi era quasi sempre uno schizzo faticosamente restituito al foglio di carta a causa delle enormi difficoltà nei movimenti, Manzone faceva realizzare da un artigiano una maquette in scala 1 a 5 per verificare nello spazio a tre dimensioni l'esattezza delle proporzioni assegnate agli elementi disegnati. Alcuni mobili sono diventati modelli in scala 1 a 1 e questi esemplari, insieme ai disegni e ai modelli più piccoli, sono stati oggetto di una mostra tenutasi nel 1990 all'associazione culturale l'Ariete in via Giulia. Negli anni successivi Manzone intraprenderà altri viaggi negli Stati Uniti e nella Repubblica Dominicana dove disegnerà, nei suoi taccuini di appunti, ancora mobili che finiranno per sembrare sempre più architettura e sempre meno oggetti di arredamento.
La sua opera lascia una traccia indelebile a Ravenna, città nella quale da molti amici architetti è tutt'oggi considerato "l'unico architetto che sia passato per questa città". Nino Manzone morirà a Roma il 26 Aprile del 1996 dopo una intensa sofferenza che, forse, avrebbe potuto evitare (o prolungare?) se avesse accettato di fare la dialisi. Anche di fronte alla morte è stato radicale, ostinato, tutto d'un pezzo, come nella vita e, di fronte a quella prospettiva, la sua scelta è stata di un rapido commiato, compiutosi in quel pomeriggio di primavera, che da poco aveva visto passare le 19 e 30.

Arnaldo Bruschi

Quando, verso il 1948 o 1949, frequentavo il secondo o terzo anno della Facoltà di Architettura di Roma, un giorno comparve un nuovo studente, un poco più anziano di noi, proveniente da ingegneria. Era Nino Manzone. Non era uno sconosciuto. Da tempo si vedeva in Facoltà come amico di colleghi più anziani e più bravi. Allora, come si sa, eravamo poco numerosi, e la vita di Facoltà, con la frequenza obbligatoria, tutti i giorni e tutta la giornata quasi annullava la distinzione tra i diversi anni. Inoltre Nino, volendo passare ad architettura, doveva sostenere una serie di esami, allora assenti nell'ordine degli st udi di Ingegneria, che erano anche quelli del mio corso.
Con Nino divenimmo subito amici: studiando insieme, discutendo i nostri progetti. Ci vedevamo spesso anche fuori della facoltà, giravamo per Roma visitando mostre e musei; fermandoci a discutere, ad osservare monumenti. Andavamo insieme - per lo più con altri amici come specialmente con Renato Amaturo - al cinema e al teatro. Ci interessavamo alle più diverse manifestazioni culturali, anche letterarie e artistiche di quegli anni.
Nino Manzone era entrato con prepotenza, quasi come una imprevedibile meteora, nella nostra vita. Con il suo temperamento di siciliano focoso ed estroverso, ci scuoteva. In ogni occasione ci comunicava con diretta immediatezza il suo entusiasmo, la sua passione, sfrenata e coinvolgente, per l'architettura e, in generale, per la vita. Come un uragano d'estate irrompeva in ogni discussione. Interveniva con un suo parere, ricco di emotività, spesso paradossale, sui nostri progetti, sulle posizioni di architetti e di critici (ma anche di pittori, di registi, di poeti), sulle novità che, a livello internazionale, emergevano nelle riviste.
Allora, nei primi anni '50, nel momento della ricostruzione dopo la guerra, sembrava a molti che la lezione del movimento moderno scandinavo indicasse una strada utile anche per l'architettura e l'urbanistica italiane. Già  Piero Lugli ci aveva portato dalla Svezia materiali interessanti da discutere. Fu allora che Nino si trasferì per qualche tempo a Stoccolma e a Göteborg per lavorare in uffici e studi professionali. Il risultato di questa esperienza, subito dopo la laurea, a seguito di un concorso, fu la sede della camera di commercio di Ravenna (1953) che ancora oggi rimane un opera significativa di quel momento.
Già prima, ancora studenti, avevamo cominciato qualche piccolo lavoro insieme. Allora, dal 1952-53 e negli anni '50 Nino Manzone ospitava Renato Amaturo e me in alcuni ambienti al pian terreno della casa dei suoi genitori. Ricordo con nostalgia il tempo passato in quel piccolo studio di via Paolo Frisi; le ore impiegate lavorando, anche materialmente insieme, nel sistemarlo: le tinteggiature, la scelta delle piante - una mimosa, una ginestra - del piccolo giardino, la grande pittura astratta quasi informale - tutta in viola, verde marcio e giallo - da noi realizzata collettivamente, a gessetti e pastelli colorati, sulla parete di fronte all'ingresso. Ricordo le ore, e le nottate passate a disegnare, nel discutere progetti o in riunioni o in feste di amici.
All'università, Nino era in quel tempo (1952-61) assistente volontario, poi straordinario, nel corso di Enrico Del Debbio (con amici più anziani come Giuseppe Perugini, Nello Aprile, Franco Minissi e altri). Qualcuno dei suoi allievi, studenti, frequentavano il nostro studio divenendo nostri amici. Ricordo tra questi Vittorio Fede e particolarmente Stefano Ray, più tardi storico dell'architettura. (Ma Nino disapprovava la sua e la mia, pur sofferta, scelta per la storia che, per tutta la vita considererà il mio "vizio" e comunque, senza indulgenze, il grande pericolo per ogni architetto moderno).
Ma intanto, troppo presto, la vita ci divideva. Nino aveva trovato lavoro in Romagna, si era sposato (1956) e senza esitazione si era trasferito a Ravenna. Più tardi metterà su uno studio con Marcello d'Olivo e dal 1973, con tutta la numerosa famiglia, fisserà per anni la sua residenza a Teheran. La sua capacità di lavoro, e anche di promozione e di organizzazione, era al di sopra del normale. In tutto e sempre, già da studente, voleva essere il primo. Era uomo di decisioni rapide - e spesso passionali -: irrequieto, attratto dal rischio, capace di iniziative sempre generose, quasi sempre avventurose e anticonformiste, talvolta imprudenti. Ed era uomo di spostamenti facili: Gabon, Guinea, Somalia, Iran, Iraq, Santo Domingo…
Erano ormai assai più rare, per noi, le occasioni d'incontro. Solo a irregolari intervalli di tempo Nino riappariva improvvisamente. Allora si rinnovava l'antica amicizia; tornavano le lunghe ore, e notti, di scambio umano intenso e di discussioni appassionate. Soltanto negli ultimi anni, tornato definitivamente in Italia, erano più regolari e frequenti i nostri momenti d'incontro. Ma ora - per Nino, solo a Roma, di salute precaria, nell'incertezza di importanti prospettive di lavoro - erano anni sempre più tristi. Solo a tratti tornava la sua energia, il suo entusiasmo, il suo ottimismo megalomane. Sempre più spesso - dalla fine degli anni '80 - prevaleva ora la stanchezza di vivere: fino a lasciarsi morire.
Non era possibile - sempre - di fronte a Nino Manzone rimanere indifferenti. Si poteva essere urtati da alcuni dei suoi atteggiamenti o essere attratti irresistibilmente dal suo entusiasmo, dalla sua generosità umana, dalla sua tenace onestà verso se stesso. Ma certo Nino ha lasciato in tutti i suoi amici una traccia indimenticabile.
Ho molta difficoltà a esaminare in modo distaccato e a giudicare criticamente le sue architetture, così come tutte quelle di tutti i miei amici. Ma credo che Nino abbia lasciato anche qualche traccia significativa nella storia dell'architettura contemporanea. Non, forse, il "capolavoro". Ma la produzione, corrente e diffusa, di un architetto romano, italiano, divenuto con insolita coerenza un architetto del mondo. Un architetto, attento ai mutamenti di mentalità e di tecnologia, incapace di lavorare se non seguendo creativamente un'idea "forte", in cui, nella contemporaneità, credere senza riserve; un'idea in bene o in male decisamente caratterizzata. Un architetto, come non molti, capace di dimenticare la sua, pur talvolta riaffiorante, formazione "romana"; capace di mettersi a confronto, in un "villaggio globale", rimanendo profondamente se stesso.