I.M. Pei
Teoremi spaziali

Autore/Author: Ruggero Lenci


Ruggero Lenci

Il percorso intrapreso da Ieoh Ming Pei, che lo ha portato a divenire uno dei maggiori architetti a livello internazionale, è così unico da risultare di estremo interesse narrativo, non solo per le fondamentali acquisizioni che arricchiscono il panorama dell’architettura contemporanea – dove egli occupa una posizione di grande rilievo nella corrente del Late Modern, – ma anche come avvincente vicenda umana a testimonianza di un’instancabile vitalità compositiva dedicata alla costruzione d’idee architettoniche in cui sono individuabili frequenti operazioni sottrattive di volumi, sempre articolate su chiare visioni teorematiche tese a investigare le molteplici qualità dello spazio.
Il suo successo è frutto di un’ininterrotta dedizione alla delicata arte di trasformare un’idea di architettura in opera costruita, impegno nel quale ha sempre eccelso sia nel momento del progetto preliminare, sia nelle scelte dei materiali, dei dettagli e dei colori degli impasti del cemento armato, sia, ancora, nei rapporti con i committenti. La capacità di lavorare in gruppo e di condividere la paternità delle opere con i partner e con tutte le figure che contribuiscono alla re­dazione dei progetti ne dimostra la piena maturità manageriale oltreché teorica, qualità indispensabili per poter fronteggiare da ogni punto di vista incarichi tra i quali spiccano per importanza il National Center for Atmospheric Research a Boulder, Colorado, la John Fitzgerald Kennedy Library e Memorial a Boston, Massachusetts, la National Gallery of Art, East Building a Washington, D.C., Le Grand Louvre a Parigi, la Bank of China a Hong Kong. L’inclinazione manageriale è una dote ereditata dal padre Tsuyee che si rivelerà nel suo caso indispensabile per emergere e sopravvivere nella com­plessa realtà statunitense e internazionale.
In ragione di questa poliedricità, sempre funzionale ad ampliare il campo della ricerca sul progetto di architettura ma, al tempo stesso, utile a garantire una continuità di lavoro allo studio di New York ­– che ha contato fino a quattrocento persone –, si può rilevare che solo alcune delle numerose opere realizzate possono riconoscersi come interamente pensate dalla sua mente e tracciate dalla sua mano. Pertanto, all’interno della vastissima produzione dello studio, nella presente monografia saranno trattate quelle architetture in cui l’identità «Pei» è così forte da far emergere con chiarezza i caratteri distintivi della sua personale ricerca spaziale, tanto da ri­sul­tare riconoscibili come peculiari acquisizioni di linguaggi, di si­gnificati e di tecniche.
In seguito verrà analizzato un numero relativamente limitato di pro­getti legati in modo indelebile all’impronta «Pei». Questi sono di­­­stinguibili per la presenza dei caratteri, a lungo ricercati dal­l’ar­chitetto cinese naturalizzato statunitense, assorbiti dai suoi maestri «effettivi», tra cui spiccano le figure di Walter Gropius e di Marcel Breuer, nonché «elettivi», come Le Corbusier, Mies van der Rohe, Louis Kahn.
Una tale ricchezza e varietà di riferimenti verrà nel cor­so degli anni sviluppata fino a raggiungere una chiarezza di ri­sultati compositivi talmente coerente, solida ed esemplare da testimoniare, me­glio di ogni interpretazione critica sul suo lavoro, quale sia la genesi della «griffe» delle opere di architettura firmate «I.M. Pei». Ecco al­cuni elementi caratterizzanti:
-  la fermezza nel rimanere ancorati a un’unica forte visione, a un concetto iniziale di ciò che l’architettura deve comunicare, senza subire i facili sbandamenti dettati dalle mode nei quali sono caduti, negli anni Ottanta, molti architetti della sua generazione;
-  l’uso di una geometria rigorosa che informa di sé tutto il progetto, dalla scala dell’architettura a quella della città;
-  il pensare le masse architettoniche in termini scultorei, sottrat­tivi;
-  la capacità di saper misurare i «confini» all’interno dei quali può trovare spazio un incarico di progettazione, sapendoli ampliare al massimo della sua scala urbana al fine di realizzare un migliore e più integrato intervento;
-  liberarsi da facili contestualismi, troppo spesso incapaci di aggiungere significato architettonico a un sito;
-  misurarsi con il tema delle forme d’uso di un edificio, prima ancora di analizzarne in maniera capillare l’elenco delle funzioni, attività meno utile a incrementarne la qualità architettonica;
-  il pensare l’edificio come un luogo da esperire sia nella sua singolarità sia come episodio urbano o paesaggistico;
-  lo sviluppo di un alto rispetto per i materiali e per il loro as­semblaggio, nonché per la sperimentazione su di essi e in particolar modo sulle mescole del cemento armato.
La National Gallery of Art, East Building a Washington, D.C. è l’e­dificio con cui Pei ha raggiunto fama internazionale e con il quale ha vinto il Pritzker Price nel 1983, premio considerato il No­­bel per gli architetti. Per capire la genesi progettuale di quest’o­pera è necessario conoscere l’Everson Museum of Art a Syracuse, l’Herbert F. Johnson Museum of Art alla Cornell University, la John F. Kennedy Library e Memorial a Boston. Tutte le sue opere, e tra queste in particolar modo il museo a Washington, D.C., ri­­spondono in­nan­zitutto a due specifiche domande: quale ruolo di in­­­terazione spaziale è richiesto al nuovo edificio e che tipo d’in­terrelazioni la nuova presenza dovrà attivare con il contesto? Le sue qua­lità non si limitano tuttavia alla modellazione dello spazio, estendendosi anche alla ca­pacità di persuasione e a un magico sa­voir faire, qualità che gli consentono di attirare committenti im­por­tanti e convincerli a dotarsi di un’ottima, quindi più costosa, ar­chi­tet­tura.
Se si ritiene sia un arduo tentativo quello di separare il lavoro di Ieoh Ming Pei da quello di Henry Nichols Cobb, di James Ingo Freed, di Araldo Cossutta o degli altri progettisti, collaboratori, associati o partner che lo studio ha conosciuto nel corso di oltre cinquant’anni, ciò è dovuto soprattutto al fatto che I.M. ha lasciato sempre a tutti grande libertà nello sviluppare i progetti che, fino al 1986, sono stati eseguiti interamente a mano, e poi sempre più al computer. È anche vero che a un certo punto il disegno può divenire un’attività troppo lenta per chi come Pei deve contribuire allo stesso tempo all’elaborazione e all’esecuzione di un numero molto elevato di progetti, ivi compresi tutti gli spostamenti geografici e gli incontri che tale attività comporta.
La sua forza deriva anche dalla determinazione a non cedere in quei momenti critici, ovvero quando si verificano gravi circostanze così avverse che potrebbero risultare fatali per gruppi costituiti da personalità meno temprate e determinate di quelle con cui I.M. condivide la partnership. Il riferimento è da associarsi soprattutto al tragico episodio della caduta dei vetri della John Hancock Tower a Boston, nonché ai circa quindici anni trascorsi nella complessa vicenda del progetto della John Fitzgerald Kennedy Library and  Memorial a Boston.
Della Bank of China a Hong Kong si può dire che, dato che il pa­dre di Pei l’ha diretta e il figlio Sandi ha lavorato nelle fasi iniziali del pro­getto, questa esperienza ha costituito una sintesi di presenza «Pei» appartenente a tre generazioni. Con il Fragrant Hotel, an­ch’es­so realizzato in Cina, questa volta vicino a Pechino, sembra in­­ve­­ce che egli abbia voluto sperimentare a fondo i significati di un’architettura regionalistica pensata per la sua patria natia, tema al quale è sempre stato sensibile sin dai tempi degli studi universitari con Gropius.
Il linguaggio dell’architettura che caratterizza l’opera di Pei è mirato all’ottenimento di un assoluto rigore geometrico dei volumi, tanto da farli apparire spesso intagliati nella roccia, sia per mezzo di una deduttiva apertura del progetto al contesto sia attraverso il sa­piente perfezionamento del dettaglio esecutivo.
Due opere, la John Hancock Tower a Boston e il Jacob K. Javits Convention Center a New York, vengono qui inserite per dare una maggiore completezza alla descrizione del lavoro dello stu­dio piuttosto che per l’effettiva presenza in essi del marchio «Pei». Pertanto, avendoli qui trattati, è doveroso ringraziarne i principali autori che sono rispettivamente Henry N. Cobb e James I. Freed.
 

Le origini (1917-1935)

La famiglia di I.M. Pei da oltre seicento anni è originaria di Suzhou, a nordovest di Shanghai, una città raffinata, conosciuta per le sue lavorazioni artigianali e artistiche nonché per i suoi allievi. Suo padre, Tsuyee Pei, vi nacque nel 1893 da una famiglia di proprietari terrieri e, dopo il conseguimento della laurea nel 1911, iniziò a lavorare nella se­de di Pechino (Beijing) della Bank of China, quindi in quella di Shanghai e, dopo una promozione, a Canton (Guangzou).
Il 26 aprile 1917 a Canton, secondo di cinque figli di cui due femmine, nacque Ieoh Ming, in un clima familiare giovane ma già ben avviato all’agiatezza, in un paese che in quel momento era tormentato da lotte intestine con la presenza di molti «signori della guerra» locali e con gran parte della popolazione che moriva di fame. Nel 1918 la famiglia Pei si trasferì a Hong Kong, dove il pa­dre, grazie al­­la conoscenza delle valute estere, accrebbe la propria reputazione al­l’interno della filiale locale della Bank of China. È del 1927 la promozione a direttore del quartier generale della Bank of China di Shanghai.
Nonostante la rapida ascesa paterna nel mondo delle finanze, Ieoh Ming intuiva che la sua strada si sarebbe aperta in quelle discipline che si avvicinano al mondo della sensibilità artistica e spirituale. Molto vicino alla madre Lien Kwun, fino al punto di assumersi il compito, all’età di tredici anni, di prepararle la pipa d’oppio per placare i dolori di una malattia che la condurrà precocemente al­la morte, I.M. era solito seguirla in ritiri spirituali bud­dhisti dai quali traeva grande arricchimento spirituale.
Durante i fine settimana, la famiglia Pei si recava nella città di origine della loro dinastia, Suzhou, per far visita ai parenti. I.M. ri­corda che in tali occasioni indossava una lunga toga di seta bianca, co­­me usano fare in simili circostanze i membri delle classi sociali più agiate.
Le im­pressioni dei pellegrinaggi in quella città dalle antiche tradizioni artistiche gli rimarranno impresse nella memoria come immagini idilliache e indelebili. Egli aveva la percezione che in quei momenti avrebbe potuto ottenere ogni cosa avesse desiderato.
Gli studi alla St. John Middle School di Shanghai erano diretti da missionari protestanti e tenuti in prevalenza in lingua cinese, ma I.M., uno dei migliori studenti, imparò ben presto l’inglese che gli fu molto utile quando nel 1935, all’età di diciassette anni, si preparò per partire alla volta degli Stati Uniti.
Il padre avrebbe preferito che il figlio avesse scelto di studiare economia in Inghilterra, piuttosto che architettura negli Stati Uniti e, in ogni caso, mai in Francia, a Parigi, a suo parere città non adatta per compiere studi seri. Ma la pa­rola finale fu quella di I.M., che decise di recarsi a Philadelphia per studiare architettura all’università della Pennsylvania.
 

Dalla Cina agli Stati Uniti (1935-1948)

Arrivato a San Francisco via mare, quindi trasferitosi in treno a Philadelphia, I.M. si rese ben presto conto che quella facoltà non fa­ceva per lui per i troppi rilievi dei monumenti antichi greci e ro­mani all’esecuzione dei quali gli studenti venivano sottoposti e per un eccessivo attaccamento alla tradizione Beaux-Arts.
Dopo sole due settimane decise quindi di lasciare quella scuola per iscriversi al­la facoltà di Ingegneria del Massachusetts Institute of Technolo­gy, dove arrivò nell’autunno del 1935 e dove, però, il preside gli consigliò d’iscriversi al dipartimento di Architettura. Ma oltre agli in­segnamenti, anche lì di fatto ancora molto ancorati alla tradizione Beaux-Arts, ad attrarlo furono soprattutto le consultazioni dei testi della biblioteca, grazie ai quali ebbe modo di conoscere l’o­pera di Frank Lloyd Wright e di Le Corbusier.
Nonostante il vento tradizionalista soffiasse anche a Boston, all’MIT imparò ad apprezzare quei valori della tecnologia che in fu­turo gli saranno indispensabili per la rigorosa realizzazione delle sue opere.
La vittoria di I.M. Pei a un concorso bandito congiuntamente dall’MIT e da Harvard per un progetto da elaborarsi durante un fine settimana lo avvicinò a quest’ultima facoltà di Architettura, allora guidata da Walter Gropius.
Nel 1940, insieme al conseguimento del bachelor all’MIT, vinse la medaglia dell’American Institute of Architects e una borsa di studio per un viaggio all’estero, che non utilizzerà subito ma dopo qualche anno. Nel frattempo, trascorso un periodo di praticantato presso lo studio d’ingegneria Stone & Webster di Bo­ston, nella primavera del 1942 si sposò con Elieen (Ai Ling) Loo, giunta nel 1938 dalla Cina per studiare nel rinomato Wellesley College. Quindi, alla fine dello stesso anno, s’iscrisse alla Graduate School of De­sign di Harvard.
Dopo appena un mese, a causa della guerra che richiedeva intelligenze da impiegare in diversi settori bellici, I.M. dovette interrompere gli studi e andare a lavorare per il National Defense Research Committee a Princeton, NJ, per implementare nuovi modi di distruzione di ponti ed edifici. Finita questa esperienza lavorò per Hugh Stubbins a Boston, e quando nell’estate del 1945 nacque il primo figlio T’ing Chung, la famiglia Pei fu ospite per qualche tempo nel­la casa di Gropius.
Nell’autunno del 1945, a guerra finita, Pei riprese gli studi di architettura ad Harvard, dove iniziò anche a insegnare pro­getta­zione con il ruolo di assistente. L’influenza del metodo «col­la­bo­rative» di «Grope» (diminutivo con cui Gropius veniva chia­mato) e l’eleganza stilistica di un altro professore con cui di­ven­­terà grande amico, H. Marcel Breuer, risulteranno di fondamentale importanza per lo sviluppo delle sue qualità. Harvard è ormai la scuola di architettura più famosa degli Stati Uniti nonché la più distante dalle tendenze Beaux-Arts, fino al punto che Grope sopprimerà lo studio della storia dell’architettura.
La ricerca di uno stile architettonico di matrice internazionale, ma, al tempo stesso, appropriato per la Cina moderna, portò Pei a progettare, durante un corso tenuto da Gropius, un museo per Shanghai che venne dichiarato dal maestro europeo il più bel progetto eseguito nella sua «master class». Inoltre, in un articolo pubblicato sul numero di febbraio del 1948 di Progressive Architecture, Gropius dichiarò che il progetto di I.M. Pei «illustra chiaramente che un abile progettista riesce a coniugare le qualità insite nella tradizione – che ha trovato essere ancora vive – senza sacrificare una concezione progressista del progetto». Tale progetto si basava sulla va­riazione di due temi fondativi per l’architettura cinese: il muro e il patio.
Nel 1946, dopo aver ottenuto il Master Degree in architettura, Pei continuerà a insegnare per due anni ad Harvard, non smettendo di pensare, insieme alla moglie, che ben presto avrebbero fatto ri­torno in Cina.
 

William Zeckendorf (1948-1955)

In quel periodo a New York, William Zeckendorf, un uomo il cui incontro si rivelerà di fondamentale importanza per l’ascesa professionale di Pei, aveva deciso di ampliare le sue attività nel settore immobiliare con l’apertura di uno studio che si sarebbe dovuto occupare della progettazione di grandi complessi dagli usi commerciali, residenziali, alberghieri e a uffici, da immettere sul mercato degli immobili.
Zeckendorf intendeva trovare un architetto giovane, «il più bravo architetto sconosciuto del paese», al quale affidare questi grandi incarichi. Chiese consiglio all’amico Nelson Rockefeller che lo indirizzò a Richard Abbott, il quale, avendo senza dubbio letto nell’inverno del 1948 l’articolo di Gropius su Progressive Ar­chitecture, gli fece il nome di Pei.
L’incontro tra i due personaggi fu di riconoscimento immediato dei valori dell’altro, di affinità e di rispetto, nonostante la differenza di età. Zeckendorf ebbe la meglio sulle perplessità di Pei, in quel mo­mento molto combattuto tra il tornare in Cina o il continuare l’attività d’insegnamento ad Harvard, convincendolo ad accettare l’incarico e a trasferirsi a New York.
Per comprendere la forza economica e il potere di questo magnate americano, si pensi che il sito sul quale sorge il complesso delle Nazioni Unite era di sua proprietà e che per assicurare alla città di New York la sede delle Na­zio­ni Unite – piuttosto che rischiare di perderla a favore di Philadelphia o di San Francisco – egli rinunciò a realizzarvi un colossale progetto, già avviato da tempo, di una «città nella città» a cui avrebbe voluto dare il nome di «X-city».
Nel 1948 Pei divenne quindi il di­rettore della Webb & Knapp, la divisione, così chiamata da Zec­kendorf, che si sarebbe occupata d’importantissimi progetti ar­chi­tettonici.
Con l’aiuto dell’introduzione nel 1949 del National Hous­ing Act, la combinazione tra le capacità imprenditoriali di Ze­cken­dorf e quelle progettuali di Pei iniziò a dare i primi risultati nel settore abitativo.
Uno dei primi progetti che ne derivarono fu la Helix Tower, un edificio circolare per appartamenti sfalsati tra loro e privi di brise-soleil che però, a causa della sua complessità realizzativa, non fu mai eseguito. Per costruire il modello dell’edificio, I.M. si rivolse a un suo ex studente di Harvard, Henry Cobb, un bostoniano po­co più giovane di lui, con cui in futuro sarebbe nata una delle partnership architettoniche più solide e importanti del mondo. Durante una visita a New York di Le Corbusier per il progetto delle Nazioni Uni­te, Pei ebbe modo di far vedere al maestro europeo il modello della sua torre ricevendo il seguente commento: data la circolarità dell’edificio e la mancanza di brise-soleil, come si sarebbe realizzato l’ombreggiamento degli alloggi esposti al sole? Questo commento avrebbe caratterizzato profondamente le successive architetture di Pei.
Nell’autunno del 1950, vista la quantità di lavoro presente nello studio Webb & Knapp, I.M. convinse Zeckendorf ad assumere un aiuto, ancora una volta Henry Cobb, che nel frattempo aveva accettato un lavoro da Hugh Stubbins. Cobb, anch’egli amante del ri­schio, non seguendo i consigli di Stubbins che lo esortava a non par­tire per New York, non esitò a riunirsi con il giovane ex professore di Harvard, nella prospettiva di eseguire quei grandi lavori che, in realtà, non tardarono ad arrivare.
Il primo progetto su larga scala, dopo il più contenuto Gulf Oil Building ad Atlanta, completato nel 1949, fu il centro commerciale di Roosevelt Field, eretto nel campo di aviazione dal quale Charles Lindberg aveva decollato per Parigi nel 1927. Seguì la rimodellazione degli uffici di Zeckendorf in Ma­dison Avenue, quindi il Mile High Center a Denver, così chiamato in onore alla città che lo ospita situata a oltre millecinquecento me­tri slm. In­tanto il gruppo si era ampliato e comprendeva Ulrich Fran­zen ed Eason Leonard, quest’ultimo in qualità di direttore amministrativo dell’ufficio di Denver.
In occasione del successivo progetto, Courthouse Square, eseguito ancora a Denver, Franzen abbandonerà il gruppo Webb & Knapp, sostituito da Araldo Cossutta, un altro ex alunno di Harvard che progetterà con Pei anche il famoso complesso del Christian Science Center a Boston. Al gruppo si assocerà inoltre Leonard Jacobsen, un collega di Eason Leonard, conosciuto da quest’ultimo nel­lo studio di William Lescaze.
Il complesso denveriano si caratterizza per la presenza di un grande volume rivestito di pannelli di alluminio contenente spazi commerciali, accessibili da un ambiente sormontato da una copertura quadrata a otto falde dolcemente raccordate tra loro, che campeggia sulla piazza, e da un albergo Hilton di 884 stanze, progettato insieme a Cossutta secondo gli stilemi propri della tradizione lecorbusieriana.
Fu quindi la volta dello sviluppo urbanistico di Southwest Wa­shington, un progetto che riguardava un’area di circa duecento ettari della capitale basato su un viale centrale largo novanta metri – L’Enfant Plaza – sul quale si sarebbero aperti uffici, attività culturali, centri governativi, case a schiera, edifici abitativi e una marina sul fiume Potomac.
Fu durante l’elaborazione di questo progetto, attuato all’ottanta per cento, che entrò nello studio James Ingo Freed, un architetto nato a Essen, in Germania, nel 1930, che diventerà insieme a Henry Cobb uno dei principali partner dello studio. La se­guen­te esperienza progettuale, Place Villa Marie, iniziata nel 1955, riguarderà lo sviluppo edilizio fortemente intensivo di un’area inserita nella città di Montreal, comprendente un grattacielo di 48 piani che avrebbe dovuto contenere trecentomila mq di spazi a uso ufficio e un centro commerciale.
 

I.M. Pei & Associates (1955-1966)

Quando lo studio Webb & Knapp arrivò a contare settanta persone, con il benestare di William Zeckendorf fu deciso di cambiargli il nome in I.M. Pei & Associates, una partnership di Pei, Cobb e Leonard.
Il successivo progetto troverà localizzazione a New York, tra la Trentesima e la Trentatreesima strada e la Prima e la Seconda Avenue. Si tratta di un vasto intervento residenziale denominato Kips-Bay Plaza (1957-1963) consistente in due edifici alti in linea con struttura in cemento armato esposto, nel cui impasto sono inseriti pigmenti colorati. La facciata è composta da una griglia di brise-soleil dove sono state collocate, in posizione arretrata, le porte-finestre, così da incidere i prospetti con un’infinita serie di loggette peraltro richieste dal regolamento dell’edilizia agevolata della Federal Housing Authority.
Questo progetto, così come quello molto similare dell’Hotel Hilton a Denver (parte di Courthouse Square), servirà da palestra per quello delle più famose torri del quartiere Society Hill a Philadelphia (1957-1964), realizzato a seguito di un concorso-appalto vinto insieme a Zeckendorf.
A Philadelphia si trattava di progettare un quartiere residenziale in una zona della città compresa tra il fiume Delaware e il downtown, lì dov’erano sorte le prime case di un elegante quartiere che poi, dagli inizi del secolo, si era andato via via deteriorando. La proposta di concorso consisteva nel co­struire cinque torri, di cui tre vicino al Delaware, nella posizione at­tuale, e due in un’area traslata di quattro blocchi verso il centro della città, mai realizzate. Tra i due gruppi di torri sarebbero sorti i nuovi quartieri di case basse ad alta densità, a schiera, della cui progettazione si è reso responsabile, oltre a Pei, anche l’architetto Louis Sauer con una serie d’interventi innovativi e di ottima qualità urbana.
Le tre torri di trentuno piani cadauna, posizionate in modo sfalsato, fanno uso dello stesso trattamento del cemento armato a vista pi­gmentato e degli stessi dettagli sperimentati nel progetto di Kips-Bay Plaza. Esse si configurano, in rapporto alle case a schiera a mat­toni che si affacciano sulla grande piazza sottostante, come presenze astratte che danno luogo a un insieme urbano composto da tipi edilizi fortemente diacronici, che risultano essere nel loro insieme articolati, astratti e metafisici. Le case a schiera si basano su un’idea d’in­ca­stro tra volumi turriti a mattoni, ampie fasce vetrate e muri delimitanti i patii ancora a mattoni, il tutto pensato per evitare l’inserimento delle finestre come mere bucature murarie. Queste case a schiera, insieme a quelle di Sauer, sono tra i migliori esempi in assoluto di ca­se basse ad alta densità inserite in un tessuto urbano.
Il primo incarico indipendente di una certa importanza risale al 1959, allorquando Pei ricevette l’invito personale dell’MIT di progettare, all’interno del campus universitario, il Green Earth Science Building. Zeckendorf acconsentì alla richiesta di I.M. di poter ac­cettare l’incarico, a patto che le attività correnti dello studio non ne risentissero. Pertanto il progetto dell’edificio fu portato avanti principalmente da Araldo Cossutta sull’idea di Pei di svilupparne il vo­lume in altezza.
Anche in questo caso, si tratta di una struttura in cemento armato con superfici esterne molto simili a quelle dei progetti precedenti. La mancanza di dettagli di grande plasticità e l’effetto di tunnel del vento che si viene a creare nel portico sottostante il volume della torre – fenomeni lamentati da professori e alunni – non collocano questo edificio tra i migliori esempi di una buona qualità progettuale dello studio. Va detto che in alcuni casi I.M. Pei, se da un lato ha concesso molte opportunità di emergere a giovani e meno giovani collaboratori, dall’altro, così facendo, si è trovato al riparo da critiche dirette quando le cose, come in questo caso, non sono andate del tutto bene.
Un altro progetto degno di nota è la Luce Memorial Chapel (1954, 1960-63), realizzata a Taiwan, dove vengono sperimentate le forme della pagoda rese espressioniste in senso contemporaneo tramite l’uso di superfici rigate, che qui tendono a «regionalizzare» il padiglione Philips progettato da Le Corbusier insieme a Iannis Xe­nakis. Inoltre, va citato il gruppo di tre torri residenziali di trenta pia­ni noto come University Plaza, realizzato sulla Washington Square di New York nei pressi del Greenwich Village e progettato insieme a James Freed (1961-67).
Nel frattempo, le attività di William Zeckendorf iniziavano a sof­frire. Pur essendo proprietario di ventimila appartamenti, di seimilacinquecento stanze d’albergo, di un milione di mq di uffici e di trecento milioni di dollari in altri beni immobiliari, il suo impero non go­deva di ottima salute. Una delle ragioni fu che l’aeroplano a­ve­va re­­so possibile andare e tornare da qualsiasi città degli Stati Uniti senza fermarsi neanche una notte a dormire in albergo. Zeckendorf, pertanto, costretto a ridurre la sua attività, permise a Pei di rimanere negli spa­zi di 383-385 Madison Avenue pagando un modico affitto, con il patto di rendersi disponibile quando e se necessario per sviluppare nuo­vi progetti insieme. Lo studio I.M. Pei & Associates rimase in que­gli uffici fino al 1966, data nella quale si spostò al n. 600 della stessa via. Nel frattempo, nel 1963 Araldo Cossutta di­ventò partner del­lo studio, che lasciò nel 1973 per mettersi in proprio.
Se da un lato Zeckendorf aveva reso edotto Pei di tutto ciò che at­teneva alla valutazione delle potenzialità di un’area, dall’altro lo studio composto da oltre settantacinque persone, doveva ora fronteggiare il problema d’iniziare a cercare i lavori in modo indipendente, non potendo più contare su quelli che gli venivano portati dal tycoon.
A rendere le cose più dif­ficili si aggiunsero sia le dicerie secondo le quali la crisi di Zeck si sarebbe propagata anche al destino di Pei & Associates, sia il fatto che il mondo architettonico guardava I.M. dall’alto in basso, giudicandolo più come il bravo direttore del­l’ufficio tecnico della Webb & Knapp che per le sue qualità individuali di progettista.
 

National Center for Atmospheric Research, Boulder, Colorado, (1961-67)

Ma non tutti la pensavano allo stesso modo, prova ne sia che quando Walter Roberts ebbe bisogno di un architetto per progettare il National Center for Atmospheric Research (NCAR), presso Boul­der, cittadina vicino a Denver e sede dell’università del Colorado, scelse proprio Pei.
L’idea di Roberts era quella di creare «The Caltech of Colorado» a Table Mesa, un sito ai piedi delle Montagne Rocciose noto co­me Flatirons, ovvero, un centro nel quale scienziati selezionati po­tessero lavorare vicino agli elementi della natura, lontano dagli in­quinamenti urbani.
Roberts, come in precedenza aveva fatto Zeckendorf, voleva affidare l’incarico a un «giovane sconosciuto con grandi promesse per il futuro», quindi si rivolse ai suoi amici architetti Tician Papachristou e Wallace Harrison per creare una commissione della quale fu fatto presidente Pietro Belluschi, con il compito di selezionare una serie di candidati.
Oltre a Pei, tra i candidati vi erano Edward Larrabee Barnes, Harry Weese, Skidmore Owings & Merrill e altri. Tut­ti furono invitati a vedere il sito, quindi Pei venne scelto all’unanimità con la motivazione che «questo progetto costituirebbe per lui una vera sfida che gli apporterebbe tali vantaggi e soddisfazioni, sia professionali sia personali, da coinvolgerlo enormemente».
In un successivo viaggio a Boulder, Pei e Roberts passarono di­verse ore sul sito a discutere sulla natura dei processi creativi e su quel­li della ricerca scientifica, argomenti sui quali si trovarono in pie­no accordo essendo entrambi interessati alla casualità dei fenomeni d’interazione tra le persone. Una fonte d’ispirazione, per il rap­porto da instaurare tra progetto e contesto, venne inizialmente a Pei dalla cappella di Notre-Dame-du-Haut a Ronchamp di Le Corbusier, per la volontà ch’egli aveva di concepire un luogo nel quale fosse riprodotto un simile approccio all’edificio in un sito naturalistico che, tramite un percorso circolare, avrebbe rivelato l’edificio per gradi, come in un film. Pei s’ispirò inoltre ad altre opere del maestro svizzero-francese, tra cui l’Alta Corte di Giustizia a Chandigarh e il convento di La Tourette.
I.M. visitò anche la US Force Academy progettata da SOM e in costruzione in quel periodo a Colorado Springs, ma per il tipo di ordine casuale, in un certo senso poco ordinato, che Roberts aveva in mente, questo complesso non era adatto a svolgere un ruolo di riferimento.
Pei trascorse quindi un periodo nel quale fu solito mandare il proprio pensiero alla ricerca delle radici ancestrali dell’architettura, nel tentativo di stabilire con quei luoghi una relazione il più possibile diretta e non mediata dai linguaggi della storia. Gli vennero in mente le sei enormi pietre cerimoniali visitate un anno prima a Ollan­taytambo, un antico villaggio inca sulle Ande, probabilmente an­che Stonehenge e i Mohai dell’isola di Pasqua. Ma poi, durante un viaggio con Elieen nel Mesa Verde National Park, riconobbe nei pueblo indiani del Tredicesimo e Quattordicesimo secolo «un’architettura che è in pace con la natura».
Il tema divenne quindi come trasformare queste idee in qualcosa di contemporaneo e adatto sia all’unicità del sito sia alle funzioni del centro. Pei tornò a Boulder e trascorse, come in un ritiro spirituale, una notte in sacco a pelo sul sito del­la Table Mesa; quindi, tornato a New York, progettò una serie di torri che risultarono però troppo allineate e prive di uno spazio intercluso. Per tale ragione non piacquero a Walter Roberts, il quale lo consolò dicendogli che nella scienza nulla si scopre al primo tentativo.
Intanto si stava facendo strada nell’animo di Pei la consapevolezza che non è possibile competere con la bellezza della natura, ma che ci si può solo unire a essa. Seguendo questo principio nacque la configurazione finale del progetto, composto da due gruppi di torri di laboratori e uffici coronati da «nidi d’aquila» da cui è possibile ammirare e contemplare lo straordinario panorama delle Montagne Rocciose.
I gruppi di torri sono uniti tra loro da due livelli basamentali e da un centro di attività comuni. La richiesta di generare, tramite la disposizione degli edifici, un forte livello d’interazione tra gli scienziati viene in questo schema soddisfatta per mezzo di una configurazione distributiva che lascia loro libera la scelta del percorso da effettuare per spostarsi da un gruppo di laboratori a un al­tro. In questo senso viene introdotto uno spazio esterno tra gli edifici che, come la piazza di una piccola città, offre la presenza di un «luogo» che trasforma il centro in una cittadella, nella quale sono frequenti le possibilità d’incontri occasionali.
Anche in questa realizzazione è stato fatto uso del cemento ar­mato per tutte le superfici esterne, con aggiunta nell’impasto di una sabbia tratta da una vicina cava dove si estrae la tipica roccia rosa della zona. Le superfici sono quindi state scanalate e bocciardate con utensili a pressione pneumatica, così da ben integrarsi con le rocce del sito montuoso.
Come da programma l’avvicinamento al centro avviene tramite una lunga stradina che vi si accosta lentamente e «con rispetto», compiendo una lunga curva con un angolo di 180° che prepara il visitatore all’incontro.
Una delle critiche più aspre a questo edificio verrà proprio da Pei:?«Formalmente esso colpisce, ma non è brillante… È privo di spa­­zi importanti».
Ciononostante, il progetto rappresenterà per lui una pietra miliare nell’esprimere appieno una ricerca compositiva ba­sata sull’uso articolato di forme elementari.
 

John Fitzgerald Kennedy Library and Memorial, Boston (1964-1979)

A seguito dell’assassinio del presidente Kennedy, gli Stati Uniti diedero subito vita al progetto di realizzazione della biblioteca e del memoriale a lui dedicato. Insieme alla John Hancock Tower a Boston, il progetto della JFK Library e Memorial, in un sito della stessa città che si affaccia sulla Dorchester Bay, sarà per I.M. Pei & Associates – che nel 1966 assumerà il nome di I.M. Pei & Partners – un lavoro lungo e penoso a causa di numerosi problemi di difficile soluzione. Ciononostante, la selezione di Pei tra un gruppo di candidati di enorme rilievo (del quale facevano parte Alvar Aalto, Franco Albini, Lucio Costa, Sven Markelius, sir Basil Spence, Ken­zo Tange, Hugh Stubbins, Mies van der Rohe, Louis Kahn, Gordon Bunschaft, Philip Johnson, Paul Rudolph, Paul Thiry e John Warnecke), lo lancerà verso una serie di prestigiosissimi incarichi che di rado altri architetti hanno avuto l’onore di ricevere.
Le due persone a cui fu affidato il compito di selezionare il progettista erano Jacqueline Kennedy e William Walton, un amico di famiglia che aveva diretto la campagna elettorale del presidente e che in seguito aveva ricoperto il ruolo di direttore della commissione per le Arti. Durante tutti gli incontri, dal primo tenuto al Ritz Carlton Hotel a Boston nell’aprile 1964, a quello del giorno successivo nella casa dei Kennedy di Hyannisport a Cape Cod, a quello delle settimane seguenti svoltosi nell’ufficio di Pei, Jacqueline Kennedy e William Walton si convinsero che I.M. sarebbe stato, tra gli architetti intervistati, il più adatto a sviluppare il delicato progetto.
Nel luglio del 1964, mentre la famiglia Pei era in vacanza a Ca­sti­glioncello, nei pressi di Livorno, arrivò il telegramma di conferma dell’incarico. Nel 1965 Pei e Theodore Musho, associato allo stu­dio dal 1961, iniziarono a elaborare le prime idee su un sito dal nome «Brighton» a Cambridge, messo a disposizione dall’universi­tà di Harvard nella quale il presidente Kennedy aveva studiato. L’a­rea, però, risultò ben presto insufficiente ad accogliere, oltre alla bi­blioteca, anche il memoriale, gli archivi, il museo e l’istituto go­ver­nativo. Fu grazie all’intervento di Jacqueline e di Rose Kennedy che venne poi scelta un’area più vasta, di circa cinque ettari di su­per­ficie, nota come «MBTA Car Barn site», localizzata sempre al­l’in­terno del campus universitario di Cambridge. Su di essa erano pe­rò depositati container e vecchie carcasse di camion che per realizzare il progetto avrebbero dovuto essere rimossi.
La prima proposta presentata dallo studio Pei fu una piramide vitrea troncata in alto, di oltre 25 metri di altezza, circondata da un edificio con una corte circolare di cinque piani. Jackie ne approvò su­bito lo schema, senza richiedere alcuna modifica. La messa a punto da un lato e lo sgombero dell’area dall’altro richiesero però molto tempo, tanto che il progetto venne reso pubblico nel maggio del 1973. Esso fu subito contestato dai residenti di Cambridge i quali si sentivano terrorizzati dal pericolo di ospitare una così grande struttura nel campus universitario, un’opera che a loro dire avrebbe certo portato con sé milioni di visitatori all’anno in auto e pullman, finendo per turbare profondamente la piccola dimensione comunitaria dedita agli studi. Anche un nuovo progetto, elaborato dallo studio Pei per lo stesso sito, che riduceva di un terzo il volume costruito, non riuscì a placare gli animi dei residenti, sempre convinti che il Memorial avrebbe trasformato una realtà di studio e di concentrazione in una specie di Disneyland.
Nel 1975 fu annunciata la rinuncia alla costruzione della JFK Library e Memorial presso Cambridge e, in quel momento, arrivarono oltre cento proposte da altrettante università degli Stati Uniti pronte a of­frire un sito per la costruzione del centro. Fu quindi scelto, per un so­­lo voto di differenza, Columbia Point, un altro sito bostoniano of­fer­­to dall’università del Massachusetts consistente in poco più di quat­tro ettari di terreno che si affacciano sul bacino del porto della stes­sa città. Ma secondo Pei anche questo lotto era inadatto, in quanto troppo vicino agli edifici del Campus. Il sito fu quindi cambiato ancora una volta a favore di un’area poco distante, dove il litorale era sta­to sottratto al mare per mezzo di scarichi d’immondizie e residui di detriti di ogni tipo. Inoltre, sotto terra era localizzata una grande fognatura che riversava nel porto di Boston milioni di litri di liquami al giorno. Pertanto qualsiasi edificio progettato su quel terreno avrebbe dovuto essere costruito su pali profondi almeno quarantacinque metri fino a incontrare la roccia.
Nel marzo del 1976 Pei avviò il progetto definitivo, che ormai aveva perso molta della sua ispirazione iniziale. Ciononostante, in esso è presente un’interessante soluzione spaziale: l’ingresso al­l’edificio ha luogo a un livello superiore rispetto al piano terra del gran­de cubo vetrato che viene intersecato da un volume triangolare. In tal modo, subito dopo aver varcato la soglia dell’edificio, il visitatore viene proiettato nel grande spazio sul quale si affaccia, dominandone la vista, e che ha sullo sfondo la baia di Boston. Questa tecnica di scoprire gli spazi non tutti in una volta ma per gradi, a ma­no a mano che si penetra nell’edificio, costituisce una caratteristica del modo di concepire l’architettura che Pei stava usando in una serie di progetti, tra cui quello in corso di elaborazione per la National Gallery of Art, East Building di Washington, DC.
Entrando nel Memorial è subito visibile la Dorchester Bay filtrata dal vetro del grande atrio; quindi, voltando a destra, si accede a uno dei due auditori all’interno dei quali è prevista la proiezione del filmato sulla vita del presidente. In seguito si scende di un livello per penetrare dal pianterreno nel grande atrio, delimitato su tre lati da una struttura reticolare ad aste di acciaio scure che supportano i vetri, e dominato da un pilastro di ordine gigante che sorregge il volume triangolare di colore bianco che s’incunea nello spazio.
L’edificio ha ricevuto una serie di critiche, anche negative, alcune delle quali non immotivate, espresse a causa di una sorta di ovvietà presente nella composizione dei volumi che non riescono ad articolarsi in modo opportuno, fallendo così nel tentativo di trasformare quest’occasione in una delle migliori architetture di Pei, quelle architetture a cui l’America e il mondo si stavano iniziando ad abituare.
 

John Hancock Tower, Boston (1966-1976)

Secondo Carter Wiseman, dal 1980 critico architettonico del New York Magazine e curatore della più esaustiva monografia su I.M. Pei, nessuna analisi critica sul lavoro del maestro può ritenersi esaustiva senza almeno un accenno alla vicenda del grattacielo John Hancock a Boston. Infatti, anche se, come già detto, il principale responsabile di questo progetto è stato Henry Cobb – ed è pertanto soprattutto a lui che ne va il merito, – esso risponde appieno all’impostazione spaziale di Pei.
La compagnia di assicurazioni bostoniana che dà il nome all’e­dificio necessitava di un grattacielo che ne pubblicizzasse l’im­ma­gi­ne. Ciò per dare risposta alla costruzione, completata nel 1963, della Prudential Tower, una compagnia di assicurazioni di Newark che aveva voluto realizzare, a opera di Charles Luckman, l’edificio più alto di Boston, invadendo per così dire il campo. Si tratta di un vo­lu­me talmente sgradito in città da dar vita sul Boston Globe, a firma del critico di architettura Robert Campbell, al «Pru Awards», riconoscimento da assegnare ogni anno al peggiore edificio della città. La nuova torre doveva sorgere in un piccolo lotto di meno di due et­tari adiacente a Copley Square, alla Trinity Church di Henry Hobson Richardson e alla biblioteca pubblica di Boston di McKim Mead & White. La prima proposta progettuale, completata nel­l’estate del 1966 da Pei, prevedeva un volume cilindrico opaco per centocinquantamila mq totali di superfici per uffici. La seconda proposta, resasi necessaria a causa di un incremento nella domanda di cinquantamila mq, ha comportato, in quella piccola area, la ridistribuzione della maggiore superficie richiesta su sessanta piani che di­ven­tarono di tremila mq ciascuno, una dimensione ben maggiore ri­spet­to ai duemila tipici dei grattacieli americani.
Nonostante la comunità della città avesse dichiarato immorale per uno studio di architettura accettare un incarico su quel sito, lo studio Pei, con il bostoniano Henry Cobb in qualità di leader del progetto, produsse in due mesi il preliminare di quello che sarebbe diventato l’edificio non solo più alto, ma anche più elegante del New England. Al fine d’inserire i metri quadrati richiesti e, al tempo stes­so, rendere il volume meno invasivo nei confronti della piazza e della chiesa, fu deciso di dar vita a un parallelogramma che sfruttasse la dimensione diagonale del lotto, le cui testate presentano uno spessore ridotto al minimo, ulteriormente alleggerito da una fessura a forma di «V» rientrante nel volume cristallino. Un rivestimento in­te­grale di vetro specchiato ne avrebbe inoltre limitato l’im­patto a­malgamandone l’imponente massa nel contesto costruito che su esso si sarebbe riflesso e smaterializzandolo nel cielo.
Sia la Back Bay Association sia la comunità architettonica di Boston sia, ancora, altre voci influenti della città si opposero fortemente al «mostro» che secondo loro stava per sorgere in quell’area così delicata sotto diversi punti di vista, ma i lavori non furono in­terrotti neanche quando, durante lo scavo, le fondazioni della Trinity Church e del Copley Plaza Hotel iniziarono a cedere causando danni ai muri, alle finestre e agli impianti.
Quando la struttura fu completata si decise di usare un vetro ri­flettente a doppio strato, delle dimensioni di 1,37 x 3,50 mm e del peso di 225 kg che fu prodotto in 10.334 esemplari. Ma quando, nel gennaio del 1973, a edificio non ancora ultimato, una tempesta di vento colpì Boston, molti vetri della torre si ruppero e alcuni caddero a terra, per fortuna senza provocare danni alle persone. Circa un ter­zo delle finestre fu subito rimpiazzato con fogli di compensato, dan­do modo ai detrattori d’identificare la John Hancock Tower come l’e­dificio in legno più alto del mondo. Lo studio Pei ordinò, quindi, di cambiare tutti i vetri sostituendoli con lastre tradizionali, singole e temperate. In aggiunta furono usate 1650 tonnellate di acciaio nella difficilissima impresa di controventare, a edificio ormai quasi terminato, le strutture del grattacielo. Il costo fi­nale di 160 milioni di dollari risultò essere quasi il doppio di quanto preventivato.
L’impatto che la saga del John Hancock ebbe sulla I.M. Pei & Partners fu enorme, una calamità che avrebbe potuto significare la chiusura dello studio, accusato in tribunale dal committente di aver prodotto disegni esecutivi e capitolati che per i vetri descrivevano una condizione non consona a fronteggiare le forza dei venti. An­che la Libbey Owens Ford, ditta fornitrice delle lastre, fu accusata in tribunale dalla John Hancock di negligenza nel fornire i vetri, ma la stessa intentò subito una controcausa nei confronti dell’accusatrice per averne diffamato la reputazione. Quindi ebbe luogo un’ulteriore causa intentata dal produttore dei vetri nei confronti della I.M. Pei & Partners, accusata di aver sbagliato le specifiche dei carichi di vento, a cui seguì una controcausa da parte degli architetti per frode, incorretta interpretazione dei documenti progettuali e, inoltre, per aver trattenuto informazioni sui difetti di sigillatura delle lastre dei vetri termici tra loro. Solo nel 1981 fu trovato un accordo tra le parti che pose fine alla spinosa questione.
Per un periodo di almeno sette anni la I.M. Pei & Partners fu inserita nella lista nera degli studi di architettura e, tra gli altri incarichi persi, vi fu quello del grattacielo della IBM da costruire a New York sulla Madison Avenue, incarico che la famosa casa costruttrice di computer, ormai intimorita, dirottò su Edward Larrabee Barnes. Fu solo qualche tempo dopo la gloriosa inaugurazione della National Gallery of Art, East Building di Washington, DC che l’immagine dello studio si riprese facendo dimenticare gli infausti avvenimenti di Boston. Ma il netto volume che svetta su quella città oggi ne costituisce l’icona, ed è uno tra i grattacieli più belli del mondo.
 

City Hall, Dallas (1966-1977)

Un secondo incarico in qualche modo conferito a Pei a seguito dell’assassinio di John Fitzgerald Kennedy è il municipio di Dallas, città che negli anni successivi al tragico attentato era vista come la capitale dell’odio, un’immagine rispetto alla quale i suoi cittadini vo­levano trovare un rapido riscatto.
J. Erik Jonsson, allora sindaco di Dallas e presidente della Texas Instruments, era animato da un rimorso personale per aver fatto parte della delegazione che aveva invitato i Kennedy nella sua città. Inoltre, Lee Harvey Oswald, quando fu catturato dopo l’omicidio, era stato rinchiuso nella cella del vecchio municipio e tutto il mondo aveva visto le riprese dei corridoi affollati di quell’edificio quando Jack Ruby, spuntando dalla folla, gli sparò durante il trasferimento nella prigione della contea.
Il nuovo municipio doveva rappresentare il simbolo della rinascita di Dallas, il primo di una lunga serie di edifici pubblici che avrebbero dovuto ridisegnare il volto della città. Sarebbe dovuto essere per Jonsson «il municipio più bello del mondo, non importa se l’architetto viene da Timbuktu». John Burchard, presidente della scuola di architettura dell’MIT, aiutò Jonsson a selezionare venticinque architetti e tra questi, nell’elenco dei finali­sti, vi erano Philip Johnson, I.M. Pei e SOM New York Branch Office. Le ragioni della vittoria di Pei vanno ricercate sia nel fatto di essersi aggiudicato un incarico così im­­portante come è stata la JFK Library, sia per aver costruito il Green Earth Science Building all’MIT, sia, ancora, per la sintonia che il progetto dell’NCAR di Boulder era riuscito a instaurare tra gli edifici e lo straordinario contesto naturalistico.
Sin da quando Pei ricevette l’incarico, nel febbraio 1966, egli aveva già in mente l’idea di creare un edificio che avrebbe dovuto suscitare l’impressione di emergere dal suolo. Inoltre, il prospetto principale avrebbe dovuto essere rivolto verso il centro di Dallas, così da instaurare «un dialogo pubblico-privato con i grattacieli commerciali». Tra il sito sul quale doveva sorgere il nuovo edificio, molto vicino al luogo in cui era stato ucciso Kennedy, e il downtown di Dallas, vi erano però alcuni edifici di pessima qualità architettonica che, se non rimossi, avrebbero finito con l’asfissiare la nuova presenza. Pei, con quell’occhio da intenditore di siti urbani che aveva sviluppato con William Zeckendorf, chiese al Comune di acquisirli, demolirli e rimpiazzarli con una grande piazza e una zona filtro nella quale fu deciso di realizzare una biblioteca comunale. Il nuovo volume, da lui modellato insieme a Theodore Musho, risultava più stretto alla base e più largo in sommità, così da creare uno sbalzo impressionante. Con un angolo di 34°, avrebbe co­­perto la piazza per una profondità di quindici metri e avrebbe concentrato il maggior numero di uffici nei piani alti, rendendo meno affollati di funzioni quelli bassi più vicini all’ingresso. A cau­sa di questo inconsueto sbalzo, una volta reso pubblico il progetto, fu facile per i detrattori sostenere che l’edificio sarebbe crollato.
L’ordine gigante inserito nella composizione dei volumi tramite tre scale semicilindriche, di cui due avrebbero segnato l’ingresso, erano da leggersi in continuità con quello della Corte suprema di Chandigarh, opera da cui tutto l’edificio trae derivazione linguistica. Henry Moore fu chiamato per ideare l’indispensabile scultura che, come in un gioco di sponde, è utile a creare rimandi significativi: dai grattacieli di downtown a Dallas, alla facciata inclinata del nuovo edificio, alla piccola-grande massa bronzea collocata nel­la piazza.
L’esperienza accumulata da Pei nell’uso del cemento armato, nel­­l’arte di gettarlo in opera per ottenere un buon risultato e di graduarne il colore secondo i toni desiderati, fu indispensabile in questo edificio che doveva apparire come un monolito co­sti­tuito tutto della stessa materia sia all’esterno sia all’interno nel grande atrio a multipla altezza, e in continuità con la superficie della piazza. La critica maggiore che gli si può muovere, oltre alla discutibilità delle testate, al prospetto posteriore e al severo attacco a terra, verrà proprio da Pei:
È un buon edificio, ma sarebbe potuto essere più raffinato. È forse più forte di come mi sarebbe piaciuto; ha più forza che finezza […] c’è molta forza bruta in questo edificio. Non è sbagliato, ma quella stessa forza potrebbe essere stata trasmessa in modo differente. E sono sicuro che oggi troverei quel modo diverso. È una questione difficile e un po’ contraddittoria. Ma confrontiamoci con essa, per sviluppare finezza bisogna aver progettato molti edifici. A quel tempo non ne avevo progettati abbastanza.
Nonostante quest’intransigente autocritica, l’edificio ha raccolto grandi apprezzamenti tra cui quello di Ada Louise Huxtable che sul New York Times ha scritto: «Uno dei nostri edifici più importanti […] di cui Dallas dovrebbe essere fiera». Anche in questo caso, i co­sti diventarono più che doppi rispetto al budget iniziale.
 

National Gallery of Art, East Building, Washington, DC (1968-1978)

Due triangoli, uno isoscele con angoli di 38°, 71° e 71°, l’altro retto, di 19°, 71° e 90°, vengono in quest’opera uniti da un terzo triangolo isoscele, il lucernario, ancora di 38°, 71° e 71°. Questa è la semplice logica compositiva che dà luogo a uno dei più straordinari edifici del Ventesimo secolo, per il quale Pei, più che per ogni altro progetto, viene associato alla vittoria del Pritzker Price.
Una logica tutta derivante dal sito di forma trapezoidale, localizzato sull’intersezione del Mall con la Pennsylvania Avenue, che coglie in pieno, sottolineandone la geometria, il significato del progetto della città di L’Enfant del 1791.
Lo sponsor principale fu Paul Mellon, appartenente a una delle famiglie più note e ricche degli Stati Uniti. Suo padre, il ricco banchiere Andrew W. Mellon che era stato anche ministro del Tesoro, aveva donato nel 1937 la sua collezione consistente in 132 opere di pit­tura e scultura alla National Gallery of Art, una nuova istituzione che il Congresso degli Stati Uniti aveva approvato in quello stesso an­no. L’edificio, interamente finanziato da Mellon, fu progettato in sti­le neoclassico da John Russell Pope in un sito di forma rettangolare sul Mall di Washington, tra la Constitution Avenue, Madison Dri­ve, la Quarta e la Settima strada. Per le finiture esterne fu scelto un marmo del Tennessee con blocchi dello spessore di 30 cm selezionati con particolare cura per gli accostamenti cromatici. Andrew Mellon, lungimirante qual era, volle inoltre acquistare il lotto trapezoidale adiacente, per futuri usi, e il figlio Paul decise di costruirvi l’ampliamento della National Gallery e un centro di studi sull’arte. La stima iniziale dei costi di costruzione fu di venti milioni di dollari, donati per metà da Paul Mellon e per metà da sua sorella Alisa Mellon Bruce.
Quando J. Carter Brown (rampollo della famiglia che dà il nome alla Brown University di Rhode Island) prese il posto di John Walker nella direzione del museo, in un articolo pubblicato sul Washington Post scrisse come avrebbe desiderato che fosse il nuovo edificio. L’ampliamento avrebbe dovuto fornire, oltre ai necessari spazi espositivi, anche un centro per gli studi avanzati con ambienti destinati a ufficio e con annessa una biblioteca. Le due fun­zioni dovevano essere dotate di un grande spazio centrale in comune, con il compito di orientare i visitatori. Le gallerie d’arte avrebbero dovuto essere di dimensioni contenute e, in un certo senso, «segregate» e semplici, così da non sopraffare con l’architettura la contemplazione delle opere da parte dei visitatori.
Gli altri due architetti ai quali si era pensato per questo progetto erano stati Philip Johnson e Louis Kahn, ma le visite di Mellon e Brown al Des Moines Art Center nello Iowa, all’Everson Museum of Art a Syracuse, NY, all’Herbert F. Johnson Museum of Art alla Cornell University di Ithaca, NY e al NCAR a Boulder, Colorado, fu­garono ogni dubbio sulla scelta.
Per coniugare l’idea di un grande spazio circondato da piccole gallerie d’arte, Brown intraprese insieme a Pei una serie di viaggi in Europa per visitare alcuni musei tra cui il Poldi Pezzoli di Milano, esempio di una casa trasformata in galleria d’arte. Inoltre tali richieste di spazi di ridotte dimensioni avrebbero dovuto coniugarsi con quei requisiti di carattere compositivo che, nella complessità della geo­metria urbana, avrebbero dovuto dar luogo a un edificio collocato in asse con l’esistente Smithsonian Museum di Russell Pope.
Insieme ai suoi due migliori giovani architetti, William Pedersen (che nel 1976 fonderà la Kohn Pedersen Fox Ass.) e Yann Weymouth, Pei iniziò una lunga investigazione sulle potenzialità che le forme triangolari posseggono per dare soluzione a temi architettonici e urbanistici di una certa complessità. Da questa ricerca nacque quindi un volume basato su tale geometria, fortemente traslato verso la Pennsylvania Avenue. I tre triangoli intorno allo spazio centrale di­vennero torri romboidali alte 33 metri contenenti più livelli di gallerie non più grandi di mille mq ciascuna, lasciate all’interno prive di finiture per consentire grande libertà alle diverse esigenze dei curatori delle singole esposizioni. L’atrio centrale costituisce un tripudio di dinamicità, con due livelli di passaggi pedonali, un piano scavato nel terreno e, in alto, un lucernario composto da venticinque tetraedri di vetro schermati per mezzo di griglie orizzontali dal sapore orientale. La spazialità acquista il sapore di una forra ritmata dal collegamento delle superfici piane ricavate tra masse volumetriche marmoree e cristalline. I parapetti di vetro con corrimano in acciaio, insieme a un profondo scavo nel rivestimento murario che costeggia il sistema delle scale, inseriscono nel grande atrio ulteriori elementi chiaroscurali e di trasparenza. Un enorme mobile di Alexander Calder aggiunge mo­vi­mento a uno spazio già reso dinamico dal fluire delle persone e dalla variabilità dell’intensità luminosa.
Il collegamento tra il nuovo ampliamento e la National Gallery di Pope è costituito da un concourse che passa sotto la Quarta strada, il­luminato da una serie di lucernari a forma di tetraedri irregolari dove una fontana, come una cascata, porta effetti di acqua e di luce nel li­vel­lo interrato. L’area esterna nella quale è inserita questa composizione in superficie è circondata da una fitta serie di monoliti di pietra col­locati su una circonferenza a descrivere una figura astrale il cui ri­ferimento più immediato è Stonehenge. L’ingresso al museo, benché unitario, è diviso in due parti: una maggiore per il grande pubblico, l’altra minore per gli studiosi che si recano al centro per gli studi avanzati. Sul fronte del museo campeggia una scultura di Henry Moore che, come a Dallas, risulta mol­to efficace nel ribilanciare i pesi delle masse e il sistema dei cromatismi della composizione.
Sia gli spazi interni sia quelli esterni presentano lo stesso tipo di finitura, dando al visitatore l’impressione di entrare, più che in un edificio, in una cava di pietra i cui volumi edificati rappresentano i residui rocciosi non estratti. Nonostante Pei fosse ormai noto per le sue finiture in cemento armato a faccia vista, per ragioni di continuità con l’edificio neoclassico decise di rivestire il nuovo ampliamento in marmo non lucidato. Il marmo utilizzato è lo stesso del­l’edificio di Po­pe, ma in lastre dello spessore di 7,5 cm, e la cava, ormai chiusa perché pressoché esaurita, fu riaperta proprio per quell’occasione. Il compito di dirigere le operazioni di taglio e di selezione delle lastre fu affidato allo stesso operaio di allora, Malcom Rice, ormai in pensione. Alcune par­ti del museo furono comunque realizzate in cemento esposto, pri­me tra tutte il grande architrave d’ingresso e quello che definisce la ter­­razza del sesto li­vello del centro per gli studi avanzati sul lato del Mall, poi tutti i ponti pedonali e gli architravi presenti nel­lo spazio in­terno. Anche qui nell’impasto, al posto della tradizionale sabbia, fu inserita polvere di marmo proveniente dalla stessa cava.
Così come nel JFK?Memorial, l’ingresso dell’edificio non apre subito la vista sul grande spazio centrale a livelli multipli, ma è me­diato da un luogo di transito di altezza contenuta, e solo superato questo effetto di compressione ha luogo l’esplosione volumetrica che apre alla vista sia le passerelle, sia il lucernario, sia il mobile di Calder, sia lo scavo sul sottostante livello del concourse.
Nel corso del progetto e della sua realizzazione il costo dell’edificio è passato da 20 a 95 milioni di dollari, ma, nonostante ciò, Paul Mellon fu enormemente grato al suo architetto per essere stato in grado di realizzare ciò che Ada Louise Huxtable sul New York Times definì «la cosa più fine che i soldi possono com­prare». Le critiche furono unanimi nel giudicare il museo un ca­­polavoro. Da­gli addetti ai lavori, ai turisti, alle scolaresche, ai rap­­presentanti po­litici, agli esperti d’arte, fu un vero trionfo che in quel momento e­le­vò I.M. Pei al rango di miglior architetto a livello mondiale.
 

Jacob K. Javits Convention Center, New York (1979-1986)

Anche questo imponente complesso, così come la John Hancock Tower, non può essere trascurato in una completa analisi del­l’opera architettonica di Pei, nonostante il suo coinvolgimento nel progetto – di cui come già accennato James Freed fu principale responsabile – sia stato relativo.
La necessità di costruire un nuovo centro congressi a New York si fece sentire quando, a metà degli anni Settanta, venne deciso di chiudere il vecchio Coliseum localizzato all’angolo sud-ovest di Central Park, costruito nel 1956 durante il patronaggio del mitico Robert Moses, complesso ormai divenuto non più idoneo a soddisfare le enormi esigenze congressuali ed espositive della città. Nel­l’aprile del 1979 New York approvò la costruzione del centro su un sito di circa 9,5 ettari situato tra la Trentaquattresima e la Trentanovesima strada e tra l’Undicesima e la Dodicesima Avenue, un sito de­gradato e pieno di attività dismesse intorno al qua­le brulicava la prostituzione.
A capo della Convention Center Development Corporation fu chia­mato Richard Kahn, un ammiratore di Robert Moses che, avendo la responsabilità di gestire i 375 milioni di dollari accantonati per la co­struzione del complesso, chiese consiglio a James Stewart Polsher per la selezione dell’architetto. I due studi selezionati da un e­lenco di ven­tiquattro furono Philip Johnson e I.M. Pei, che alla fine pre­valse. La scelta non fu indolore, in quanto era ormai noto che gli e­di­fici di Pei costavano molto più del previsto, ma Kahn era certo che sa­­rebbe riuscito a tenere sotto controllo ciò che ve­niva sempre più co­nosciuto come il «Pei factor». Quindi i due in­trapresero un tour per visitare i maggiori centri congressuali del paese, fermandosi ad Atlanta per incontrare John Portman, che stava iniziando a co­­­struir­ne uno in quella città, e transitando per Orlando, dove furono raggiunti da James Freed, per visitare le strutture dei grandi par­chi per divertimenti della Walt Disney e degli stu­di cinematografici.
Tornati a New York i due architetti iniziarono a lavorare su un’idea che reinterpretava in chiave moderna il Crystal Palace in ­fer­ro e vetro di Joseph Paxton, con una struttura che avrebbe occupato so­lo un quinto del volume necessario al cemento armato e che avrebbe pro­dotto un edificio il cui spazio interno sarebbe stato visibile dal­l’e­ster­no. Il progetto prevedeva la realizzazione di una superficie utile di 170.000 mq da realizzarsi con una struttura composta da 76.000 tubi e 18.700 nodi di vario diametro, il tutto tamponato da 4155 lastre di vetro. Un grande atrio di ingresso, che potrebbe contenere la Statua della Libertà (esclusa la base), è stato collocato sull’Undicesima anziché sulla Dodicesima strada per evitare l’impatto con la West Side Highway. Inoltre, i lavori di fondazione hanno dovuto tenere conto de­gli accessi sotterranei al Lincoln Tunnel che collega Manhattan al New Jersey passando sotto il fiume Hudson.
Durante la fusione dei nodi sferici ci si accorse che essi presentavano microfessurazioni e zone porose causate da bolle d’aria che, non riuscendo a fuoriuscire, rimanevano intrappolate nella forma. Pertanto dodicimila nodi furono respinti e al posto della originaria fonderia di Chicago ne fu scelta una giapponese.
A edificio finito ci si accorse che i vetri erano più scuri del previsto, tanto da non permettere da fuori la vista dell’interno come si sarebbe voluto, rendendo il volume una presenza di forte impatto nella città. Ma una volta varcata la soglia d’ingresso, la maestosità dello spazio e la minuta filigrana della struttura in acciaio che lo delimita conferiscono all’opera un grande valore di architettura e d’ingegneria strutturale che richiama alla mente le grandi coperture di Konrad Wachsmann. La struttura è supportata da colonne quadrilobate munite di capitello a forma di piramide rovesciata realizzate con grandi tubi cilindrici in acciaio, sui cui vertici sono appoggiati quattro esili tubi che formano un’incastellatura di cubi spaziali controventati e sovrapposti che s’irradiano nella copertura.
Nonostante la tonalità troppo scura del vetro, l’edificio si riscatta per le forme sfaccettate che ne compongono le parti, tanto da assumere il sapore di un moderno ziggurat, di un tempio sacrificale contemporaneo nel quale compiere ciclicamente il rito dell’incontro, del confronto e della diffusione delle conoscenze scientifiche e produttive.
 

Le Grand Louvre, Parigi (1983-1993)

Quando François Mitterand venne eletto presidente della Re­pubblica francese, rese esecutiva la decisione d’intraprendere i lavori, ormai non più rinviabili, di ampliamento e manutenzione straordinaria del Louvre, il monumentale complesso reale parigino progettato, tra gli altri, anche da Claude Perrault (1613-1688). Nei programmi di Mitterand il ministero delle Finanze, che ne occupava in modo invasivo la parte nord che guarda su rue de Rivoli, conosciuta come l’Ala Richelieu, sarebbe stato spostato in un nuovo edificio in costruzione a Bercy su progetto di Paul Chemetov.
Il Louvre ha in sé la storia e lo spirito della nazione, pertanto il progetto di un suo ampliamento avrebbe dovuto confrontarsi con questa realtà. La sua costruzione risale al 1190, quando re Filippo Augusto vi configurò un castello fortificato, trasformato nel 1565 da Carlo V nella propria residenza reale, in seguito ricostruito da Francesco I, ampliato da Enrico IV, quindi ulteriormente modificato ne­gli usi sia da Luigi XIV sia da Napoleone Bonaparte.
Emile Biasini, quando divenne presidente del Grand Louvre, dopo numerose visite a edifici di tutto il mondo e consultazioni mirate a capire quali architetti avrebbero potuto svolgere l’incarico, in­contrò Pei pri­ma a Parigi, poi a New York. Durante quest’ultimo in­contro Biasini chiese esplicitamente a I.M. se, qualora il presidente Mitterand glielo aves­se offerto, egli avrebbe accettato l’incarico di progettare il Grand Louvre. Pei chiese quattro mesi di tempo per svolgere un’indagine preliminare ritenuta indispensabile per poter fornire una risposta ufficiale. Dopo tre viaggi a Parigi, lo sviluppo di ampi studi sulla storia del Louvre e l’elaborazione di una serie d’ipotesi progettuali, Pei s’incontrò con Mitterand e con il ministro della Cultura Jack Lang, quindi accettò.
Il progetto fu portato avanti in gran segreto, senza che nessuno nello studio di New York, al di fuori di chi vi stava attivamente lavorando, sapesse della sua esistenza. La prima questione da risolvere era come accedere e penetrare nell’edificio, dato che i tre ingressi esistenti risultavano troppo stretti e inadeguati. La soluzione fu trovata collocando la nuova «porta» del museo nel centro della Corte Napoleone, così da renderla equidistante rispetto alle tre ali, riducendo la lunghezza dei corridoi che il pubblico avrebbe dovuto percorrere per avvicinarsi all’opera desiderata.
Dopo aver studiato la geometria dei giardini di Le Nôtre, divisi in quadrati disposti in diagonale, Pei produsse una planimetria la cui parte centrale si poteva immaginare occupata da una piramide a base quadrata, trasparente, quindi virtualmente invisibile. La piramide principale, alta 21,64 m, sarebbe stata circondata su tre lati da una composizione di fontane a forma triangolare di cui cinque a sfioro d’acqua e due con getti verticali, sui vertici delle quali si sarebbero incardinati tre lucernari a forma di piccole piramidi che, replicando la figura centrale, avrebbero avuto lo scopo di portare luce all’interno dei percorsi così da orientare i visitatori.
Ma queste piramidi sarebbero state solo le punte di un iceberg che nel piano sottostante avrebbe dato luogo ad ampie spazialità, tutte funzionali a ospitare le molteplici richieste necessarie al corretto funzionamento del museo: spazi pubblici d’ingresso e di circolazione, un auditorium, negozi, ristoranti, caffetterie e, inoltre, due tunnel paralleli transitati da carrelli elettrici, uno per il trasporto delle opere d’arte, l’altro per quello delle derrate alimentari. Inoltre, vi sarebbero stati spazi per uffici, laboratori per i lavori di manutenzione, di riparazione e restauro, oltre ad ampie aree per il deposito delle opere d’arte.
Il progetto piacque a Mitterand e a Biasini, ma il direttore del Louvre, trovandolo rischioso, si dimise. Durante la presentazione alla Commissione superiore dei monumenti storici, la proposta raccolse una grande quantità di critiche, prime tra tutte quelle che lo collocavano al di fuori dello spazio mentale dei francesi. La stampa fece il possibile per stroncarlo, designandolo come un’atrocità contro la quale bisognava insorgere, un corpo estraneo nella città che stava nascendo per colpa del dispotico Mitterand, il quale non aveva in questo caso rispettato la regola di bandire un concorso d’idee. Il progetto fu inoltre designato come «la casa della morte» e «un ac­cessorio di Disneyland». Le Figaro scrisse che una nuova battaglia per le piramidi stava per iniziare, riferendosi alla campagna di Napoleone in Egitto.
Vi furono però anche alcuni forti sostenitori come Pierre Boulez, il famoso direttore d’orchestra, compositore e saggista, direttore dell’IRCAM (Institut de Recherche et de Coordination Acustique-Musique) di Parigi, e Claude Pompidou, la vedova del precedente presidente, grande amica dell’allora sindaco di Parigi Jacques Chirac, il quale chiese a Pei di realizzare sul posto un modello al vero onde poter valutare l’impatto che il progetto avrebbe avuto sul pubblico. Il modello venne realizzato con tubi e tiranti che delimitavano la sagoma d’ingombro della piramide marcandone i quattro spigoli, tubi che furono lasciati sul posto per quattro giorni durante la primavera del 1985. La stampa locale non riprese le critiche, che stranamente si rianimarono in Inghilterra per mano di Charles Jencks, il quale scrisse che Pei e Mitterand avevano intenzione di co­struire un memorial per le proprie memorie. Per far sì che la realizzazione del progetto divenisse un fatto irreversibile, i lavori di scavo furono subito avviati, ma Edouard Balladur, il nuovo ministro delle Finanze del governo Chirac appena entrato in carica, si op­pose all’idea di essere trasferito a Bercy dove era già in costruzione il nuovo edificio e, nonostante il fatto che gli uffici dell’Ala Richelieu fossero stati spostati in una collocazione provvisoria, fece spendere al governo francese circa venti milioni di dollari per reinsediarsi al Louvre. Fu solo nel 1988 che Balladur acconsentì allo spostamento del ministero.
La produzione di un vetro totalmente trasparente fu un altro capitolo che si risolse solo mettendo in competizione due case produttrici: una tedesca, l’altra francese, che alla fine prevalse. Per produrre il vetro fu usata una sabbia molto pura e bianca proveniente da una cava di Fontainbleau. Le 793 lastre di forma irregolare vennero quindi inviate in Inghilterra dove furono levigate alla perfezione da una ditta locale. Inoltre bisognava prevedere che i vetri, ricoprendosi di smog, avrebbero ridotto la visibilità del prospetto del Louvre rendendo necessario impiegare una squadra di alpinisti per lavarli periodicamente.
La struttura di sostegno della piramide risultò essere un vero capolavoro. Al posto di grandi elementi strutturali fu fatto uso di un numero elevato di puntoni e tiranti, così da far risultare l’insieme più trasparente e leggero possibile. Per la sua realizzazione sono sta­ti impiegati i tiranti e i nodi necessari a mettere in tensione gli alberi delle barche a vela dell’American Cup, elementi prodotti a Littleton nel Massachusetts.
Anche nel grande atrio ipogeo, come avviene in tanti altri progetti realizzati da Pei negli Stati Uniti e nel resto del mondo, la cura prestata all’impasto e al getto del cemento armato fu elevatissima, così da ottenere l’effetto scultoreo desiderato di uno spazio scavato nella roccia. Il pilastro centrale che sostiene il solaio triangolare d’in­gresso avrebbe dovuto fungere da piedistallo per la Nike di Samotracia, una soluzione analoga a quella adottata da Carlo Scarpa nel Mu­seo di Castelvecchio a Verona, dove all’esterno il maestro veneziano introdusse la statua equestre di Cangrande della Scala. Ma per prudenza il Louvre decise di non spostare la famosa statua dalla sua posizione originaria in cima alla rampa di scale del vecchio edificio. Si pensò quindi di collocarvi un’altra scultura che poteva essere una replica del Pensatore di Rodin, ma neanche questa soluzione andò bene perché quella statua non era stata pensata per essere osservata dal basso. Quindi venne in mente Constantin Brancusi, ma alla fine non si fece nulla, lasciando vibrare questo pilastrone come una nota stonata nello spazio.
Una volta inaugurato, il Grand Louvre raccolse una quasi unanimità di consensi che arrivarono anche da parte di quelle testate e di quelle penne che all’inizio l’avevano fortemente criticato.
 

Morton H. Meyerson Symphony Center, Dallas (1981-89)

Nel 1989, anno in cui oltre al Grand Louvre venne inaugurato an­che il Morton H. Meyerson Simphony Center a Dallas, il nome della partnership cambiò ancora in Pei, Cobb, Freed & Partners, così da includere il nome dei due principali partner dello studio e da legittimare in modo ancora più rilevante gli autorevoli colleghi al fine di preparare la successione del «dopo Pei». Va rilevato che i due figli maschi di Pei sono entrambi architetti e, nonostante siano stati presenti nell’elaborazione di numerosi progetti della partnership paterna, dal 1992 sono titolari di un proprio studio di architettura, ed è soprattutto in questo studio che oggi continua a lavorare I.M.
L’idea di costruire un auditorium a Dallas nacque nel 1980, allorché la Symphony Association di quella città creò una commissione per la scelta dello studio di architettura che avrebbe progettato il nuovo edificio. Il presidente dell’associazione, Morton H. Meyerson, era un amico di Ross Perot, il ricco imprenditore texano proprietario della Electronic Data System. Meyerson, insieme ad altri membri della commissione, intraprese un viaggio per visitare oltre venti sale di auditori negli Stati Uniti e in Europa, durante il quale tutti rimasero colpiti dalla Musikvereinssaal di Vienna (del 1870) e dalla Concertgebouw di Amsterdam (del 1887), ovvero dai due fa­mosi auditori europei a forma rettangolare di dimensioni medie e con un’acustica perfetta. Nonostante Pei non avesse mai progettato un auditorium e il suo nome non fosse presente tra i ventisette gruppi candidati che avevano risposto all’invito dell’associazione, egli fu scelto per il progetto. Russell Johnson fu incaricato separatamente e in autonomia da Pei di curare gli aspetti acustici. La sala, che avrebbe dovuto contenere 2065 posti, sarebbe stata conformata da Johnson secondo lo schema rettangolare tanto apprezzato dalla commissione nel suo viaggio in Europa. La sua copertura sarebbe stata composta da un doppio solaio in modo da risultare perfettamente isolata dal rumore degli aeroplani. Tra la sala e gli spazi laterali fu prevista un’intercapedine e sopra le balconate una camera di riverberazione con pannelli orientabili. Un grande controsoffitto a forma di «disco volante», grazie a un meccanismo elettromeccanico, sarebbe stato po­sizionabile a diverse altezze, in modo da adattare il volume e l’a­cu­stica dell’auditorium ai diversi tipi di musica. Il parallelepipedo della sala venne ruotato rispetto alla maglia urbana così da evidenziare i rapporti tra il suo volume, la spazialità del foyer ad andamento circolare che su tre lati lo circonda e lo spazio esterno, creando un fulcro-cerniera sul montacarichi del back-stage. La chiusura in copertura dell’edificio, necessaria nei punti d’incontro tra la «scatola» e il «cerchio», fu risolta tramite lo sviluppo di tre superfici in vetro costruite su una geometria cilindrica ad andamento inclinato. Inoltre, sul lato che guarda verso lo sculptural garden fu inserito un dining pavilion coperto anch’esso in vetro con una superficie ad andamento conico.
Se la composizione delle masse esterne non convince del tutto l’occhio a causa del difficile rapporto tra linee rette e curve, nello spazio interno il livello di raffinatezza uguaglia quello della National Gallery of Art, East Building. Ciò sia per la composizione delle superfici, che dà luogo a uno spazio d’ispirazione piranesiana qui riletto secondo le teorie della prospettiva curvilinea, sia per la qualità dei materiali usati e dei dettagli tesi a generare morfologie chiaroscurali impresse plasticamente nella pietra. La complessità spaziale è tale che, in un’intervista al Dallas Morning News, durante il progetto Pei ha affermato: «Posso immaginare solo il sessanta per cento dello spa­zio di questo edificio, il resto sarà per me una sorpresa così come per tutti gli altri».
Il costo della realizzazione del progetto passò da circa cinquanta a oltre ottanta milioni di dollari e, per terminare l’opera, Perot elargì un’ulteriore donazione di dieci milioni di dollari con il patto che l’auditorium venisse intitolato a Morton H. Meyerson e che la struttura musicale fosse dedicata agli impiegati della Electronic Data System.
Per una serie di aspetti che riguardavano la sala, i dissidi tra Pei e Johnson crebbero al punto che I.M. disse a un giornalista che il suo consulente acustico ha «un buon paio di orecchie, ma non ha occhi».
Sia le superfici verticali esterne sia quelle interne vennero rivestite di pietra calcarea, e anche qui il cemento fu impastato con una particolare sabbia, così da apparire in continuità cromatica con i ri­vestimenti. Per i pavimenti del foyer fu scelto il travertino tagliato in lastre trapezoidali e montato secondo fughe radiali. Dato che l’ar­rivo di questo materiale era in grave ritardo, Pei si recò a Tivoli per sollecitarne l’invio. Sempre in Italia andò al laboratorio dove i mar­misti stavano realizzando i grandi dischi di onice inseriti nelle undici lampade appositamente progettate per gli interni e gli esterni dell’auditorium, lampade dal costo di quarantamila dollari l’una.
 

Bank of China, Hong Kong (1982-89)

La storia del grattacielo della Bank of China, uno dei numerosi progetti completati dallo studio Pei nell’anno 1989, ebbe inizio nel 1982, allorquando tale istituzione inviò a New York, dove nel frattempo si era trasferito il padre di I.M., allora ottantanovenne, una de­legazione per chiedere all’anziano genitore se riteneva che suo figlio avrebbe potuto essere interessato a progettare il grattacielo per il nuovo quartier generale della banca di cui Tsuyee era stato uno dei dirigenti. I.M., informato della proposta, rifletté a lungo prima di rispondere, perché si sentiva ancora amareggiato per come erano andate le cose con il precedente progetto realizzato in Cina, il Fragrant Hill Hotel, realizzato nei pressi di Pechino qualche anno prima, in un sito vincolato ricco di vegetazione nel quale gli imperatori si recavano durante le battute di caccia. Quindi, non prima di aver compiuto uno studio preliminare sulla fattibilità del progetto e avendo intuito che suo padre ne sarebbe stato contento, accettò l’incarico.
L’area, di appena 9000 mq, situata in un punto centrale della città di Hong Kong, non lontano dal grattacielo della Hong Kong e Shanghai Bank di Norman Foster, è lambita su tre lati da autostrade. Essendo l’unica ancora disponibile, oltretutto a un prezzo ritenuto ragionevole, la Bank of China fu incoraggiata a intraprendere l’operazione di costruirvi il proprio quartier generale: un edificio che con i suoi settanta piani sarebbe stato per anni il più alto grattacielo asiatico. Tale decisione localizzativa avvenne nonostante il fatto che durante la seconda guerra mondiale quella stessa area fosse stata bagnata dal sangue di molti prigionieri di guerra.
A causa dei frequenti tifoni che imperversano in quell’area del mondo, i regolamenti ai quali i calcoli per la progettazione strutturale degli edifici di Hong Kong si devono adeguare sono molto più rigidi rispetto alla normativa statunitense. Pertanto, Pei prese spunto da questa considerazione per imprimere tale significato nel linguaggio compositivo dei volumi. Quindi realizzò, con stecchette di le­gno, il modellino di una struttura verticale a maglie chiuse, controventata mediante grandi croci di Sant’Andrea, che divenne lo schema base del progetto. L’ingegnere strutturista Leslie Robertson, con cui lo studio abitualmente lavora, verificò la resistenza al vento di questo insieme di grandi travi reticolari verticali, quindi non esitò a rilasciare il suo parere favorevole al progetto preliminare. A questo punto Pei accettò formalmente l’incarico.
Al progetto, però, dovettero essere apportate alcune modifiche. Le ben visibili croci, che nel primo tronco dell’edificio erano in origine inscritte all’interno di maglie quadrate, persero la visibilità del­le travi orizzontali che furono arretrate così da scomparire al­l’in­ter­no del volume. Ciò avvenne in quanto fu obiettato dai committenti che una «X» inscritta in un quadrato rappresenta il simbolo di un errore, quindi un segno di fallimento che, come tale, risulta incompatibile con l’immagine di una banca. A detta di Pei, rendendo invisibili le due travi orizzontali, le «X» avrebbero assunto il valore iconografico di diamanti, una figura assolutamente priva di connotazioni negative, anzi, simbolo di ricchezza e prosperità. La modifica prospettata convinse i committenti e così si fece.
Se il volume che si sviluppa in altezza è interamente in vetro, il suo basamento è rivestito con lastre di pietra grigia che lo rendono molto robusto e formalmente idoneo a stabilire un solido contatto con il livello d’ingresso.
Alcune altre modifiche furono richieste dal Feng Shui del luogo (feng shui = «vento e acqua»), e pertanto dovettero essere attuate. Inoltre, l'8/8/1988, ritenuto il giorno più fortunato del secolo perché reitera per ben quattro volte il numero 8 così morfologicamente simile al simbolo dell’infinito, fu indicato dallo stesso Feng Shui come giorno ideale per celebrare la cerimonia di copertura dell’edificio, che venne quindi anticipata rispetto al reale stato di avanzamento dell’opera.
La torre costituisce un notevole contributo alla progettazione del grattacielo, apparendo come una risposta di sintesi di ampio rilievo della Sears Tower e della John Hancock Tower a Chicago di SOM. Ciò per quanto riguarda l’aspetto della risoluzione sia strutturale sia linguistica, così da far apparire la Bank of China come la sintesi di quei due grattacieli: una soluzione compositiva che trasforma i quadrati planimetrici della Sears Tower in triangoli, dando luogo a una maglia tetraedrica di ordine gigante che, così come avviene nella John Hancock Tower della stessa città, espone sul volume le travi di controventamento.
 

Shinji Shumeikai Bell Tower, Kyoto (1988-89)

Un piccolo progetto carico di spiritualità è quello della torre campanaria realizzata a completamento della chiesa progettata nei primi anni Ottanta da Minoru Yamasaki per una comunità religiosa che conta tre milioni di adepti, guidata da un’anziana signora di no­me Kaishu Koyama, nota come Kaishusama. La sua visita a New York, dedicata all’incontro con I.M. Pei, trovò la mente dell’architetto occupata dal progetto del Grand Louvre. Fu solo a seguito di un secondo incontro in Giappone che Pei accettò l’incarico. La torre deriva la sua forma da quella di un utensile impiegato per tendere le corde di uno strumento musicale giapponese, al quale sono stati spuntati i due angoli superiori. Nonostante questa derivazione formale, la torre risulta modellata con le masse distribuite lì dove ef­fettivamente servono: la pianta quadrata della base, contenente una scala e un ascensore, si assottiglia verso la sommità trasformandosi in un rettangolo sempre più allungato, forma idonea a ospitare i complessi meccanismi delle campane. Una morfologia monolitica di grande purezza, rivestita in granito del Vermont che, con i suoi 60 metri di altezza, rappresenta il nuovo simbolo della co­­munità.
 

Miho Museum, Kyoto (1991-98)

Il museo è situato in una regione isolata del Giappone tra le montagne del Shigaraki, in un’area immersa nel verde a venti chilometri da Kyoto. Esso ospita una collezione d’arte asiatica raccolta dallo Shinij Shumeikai, ordine religioso che invita a osservare tre semplici principi: bellezza, gentilezza, verità. Il progetto, seguendo queste re­gole, opera un perfetto inserimento nell’ambiente dando luogo a un complesso edificato virtualmente invisibile consistente in una blurring architecture nella quale viene sperimentata la ricerca di un contatto tra antichi linguaggi autoctoni e aggiornatissime tecniche architettoniche. Ciò produce una serie di padiglioni che per forma richiamano la pagoda e per la tecnologia impiegata rimandano al­l’hi-tech.
 

Deutsches Historisches Museum, Berlino (1995-2003)

Il nuovo ampliamento del Deutsches Historisches Museum è collocato tra l’Altes Museum e il Neue Wache, entrambi progettati da Karl Friedrich Schinkel ai primi del Diciannovesimo secolo, e alle spalle dell’edificio barocco dello Zeughaus (l’arsenale) che ospita la collezione principale del nuovo museo storico di Berlino. Prima della riunificazione tedesca il cancelliere Helmut Kohl fu favorevole alla realizzazione del museo, che doveva essere costruito in un’ansa della Sprea sulla sponda opposta rispetto a quella del Reichstag. Fu quindi indetto un concorso internazionale vinto da Aldo Rossi nel 1988. Ma dopo la riunificazione quelle aree servirono per la costruzione del complesso sistema dei palazzi della cancelleria. Uno dei musei dell’ex DDR era lo Zeughaus, collocato sul famoso viale Unter den Linden, e dato che risultava più piccolo di quello progettato da Rossi, l’allora direttore Christoph Stölzl persuase il cancelliere Kohl a conferire l’incarico di progettarne l’am­pliamento a I.M. Pei. Non si tratta di un’area molto visibile, collocata in una scorciatoia che conduce dal Neue Wache al Pergamon Museum.
Una volta appurato che l’angolo del trapezio conformante il lotto è di sessanta gradi, Pei dà vita a una composizione basata sulla geometria del triangolo equilatero a cui giustappone una vetrata curva che culmina in un volume non privo di carattere simbolico: una scala a chiocciola vetrata che tende a recuperare parte del­l’apparato iconografico del progetto del monumento alla Terza In­ternazionale di Vladimir Tatlin che diventa cerniera e punto di confluenza visiva della nuova spazialità urbana.
Come accade in altri musei di I.M. Pei, anche qui è presente uno spazio interno a multipla altezza nel quale campeggia un pilastro di ordine gigante teso a stabilire una chiara gerarchia di rapporti tra i volumi nei quali l’edificio si compone. Rivestito in pietra calcarea francese e pavimentato in lastre di granito nordamericano, anche que­sto museo si può accostare a una «cava di pietra» nella quale è pre­sen­te un’ingegnosa visione che organizza le operazioni di taglio della roccia in funzione dell’ottenimento di una mirabile qualità dello spazio che diventa architettura.
 

Bibliografia

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